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Questa pagina introduttiva fornisce una panoramica generale, illustrando le caratteristiche fondamentali comuni a tutte le ambientazioni fantasy più famose e presentando quelle realizzate appositamente per Myst.
Il Contimente di Sarakon è l'ambientazione di riferimento di Myst. Si tratta di un universo di stampo low-fantasy ispirato all'Europa Medioevale, ideato nel 1994 e costantemente sviluppato dai giocatori tramite la Wikipedia presente sul sito.
Il Regno di Leben è un paese immaginario immerso in un Continente che ricorda l'Europa dell'anno 1400. E' stato utilizzato come scenario per la suggestiva Campagna di Leben, imperniata sul fenomeno della Caccia alle Streghe.
Un universo low-fantasy medioevale dalle atmosfere gotiche, un Regno caratterizzato da un cupo oscurantismo religioso. Ideato come palcoscenico per la Campagna di Havel, è stato teatro anche della successiva Campagna di Tepesti.
La Campagna racchiude una serie di Avventure che coinvolge lo stesso gruppo di Personaggi: corrisponde a quello che in letteratura viene chiamato Ciclo di Storie o Saga. Questa pagina descrive le caratteristiche principali di una Campagna di Myst ed elenca quelle realizzate e giocate nel corso degli anni.
Ambientata nelle fredde e inospitali Lande del Corno del Tramonto, nelle propaggini settentrionali del Continente di Sarakon, la Campagna di Uryen narra le avventure di un gruppo di soldati alle prese con operazioni militari, faide intestine, mostruose creature e devastanti epidemie.
Estate dell'anno 506, villaggio di Caen, Continente di Sarakon. Un drappello di Cavalieri al servizio di un Signore spietato compie una sanguinosa rappresaglia nei confronti degli ignari abitanti. Un gruppo di bambini, costretto ad assistere al massacro dei propri familiari, si unisce in un giuramento di vendetta. La Campagna, ambientata dieci anni dopo il tragico evento, descrive l'adempimento di quel proposito.
E' la prima Campagna ambientata nella Linea Temporale attuale del Continente di Sarakon. Vede il suo inizio nei territori del Granducato di Greyhaven e narra le vicende di un gruppo di avventurieri contraddistinti da una forte personalità e da un grande spirito di iniziativa alle prese con minacce demoniache, feudatari crudeli, sette di adoratori delle Tenebre e bande criminali.
Ambientata nella suggestiva cornice dell'ambientazione di Leben, questa Campagna narra le vicende di una bizzarra compagnia di avventurieri alle prese con sinistri e inspiegabili fenomeni di stregoneria. Criminali incalliti, torturatori, massaie armate di mestolo e soldati corrotti si uniscono per sopravvivere all'interno di un claustrofobico scenario da Caccia alle Streghe.
Nota anche come Campagna di Tepesti, descrive una serie di avventure ambientate nelle lontane terre del Voivodato di Tepesti, un territorio isolato e inospitale situato alle propaggini orientali del Regno Santo di Alkmaar. La Campagna, caratterizzata da un'atmosfera gotica e opprimente, ha visto l'introduzione di una serie di regole alternative in sostituzione di quelle ufficiali.
E' la prima Campagna di Myst ambientata nel Regno Santo di Alkmaar.
La storia si svolge nei territori della Marca di Havel, stretti tra la povertà e un soffocante oscurantismo religioso, e descrive le avventure che vedono protagonisti i tre Cavalieri Sieghard, Wolfried e Vincent, le due Novizie Scarlet e Gisela, l'Eremita Anders e il giovane Ben.
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Non è la solita pioggia lieve a cui siamo abituati in questo periodo dell'anno. Questa è una pioggia solenne, violenta, gonfia di elettricità e cattivi presagi. I fulmini lacerano il cielo sopra le torri spezzate della Rocca di Tramontana come artigli divini, e il tuono ruggisce con voce di collera antica.
E non posso fare a meno di pensare all’ironia di tutto questo.
Per mesi abbiamo osservato questo bastione nero ergersi sul versante opposto del Traunne, come un dente marcio incastonato sul limitare del Corno del Tramonto. Tra reclute facevamo scommesse su quante stanze avesse, su quante ricchezze avremmo avuto modo di agguantare qualora fossimo riusciti a oltrepassare quelle mura. «Scordatevelo», ci diceva Acab ogni volta che quei propositi giungevano alle sue orecchie. «Questa guerra può finire in vari modi, ma una cosa è certa: quella fortezza non cadrà». Il tempo gli diede ragione, come sempre. A tre anni e due guerre di distanza mi ritrovo ancora qui, a scrutare il profilo di quei baluardo maledetto... e, ironia delle ironie, l'occasione più concreta di varcare la sua soglia — e coronare il sogno taciuto che io e mia sorella abbiamo covato per anni — me la trovo tra le mani adesso, sotto un cielo che minaccia tuoni e lampi, fianco a fianco di un pugno di soldati di Uryen. Quelli che un tempo, dalla riva opposta del fiume, osservavamo esercitarsi con movenze eleganti e ordini gridati come canti, mentre noi stringevamo i denti nell'ombra, bestemmiando sottovoce per non farci sentire dai caporali. Quelli che avevano gli scudi dipinti e le corazze lucidate, mentre noi contavamo le frecce rimaste come i pidocchi in testa. E oggi... oggi sono loro i miei compagni. Le mie spalle. I miei pari. O forse no. Forse non siamo pari. Sono ancora una soldataccia dell'Armata del Corno, figlia bastarda della disfatta, condannata a marciare sempre un passo dietro alla gloria e alla vittoria. Ma stanotte, sotto la bufera che sta per scatenarsi, nessuna uniforme esiste più. Nessun rango ci proteggerà.
Ed è questo, forse, il paradosso più crudele: ci voleva una follia come il Morbo dei Risvegliati, o il progetto di uno scienziato pazzo che si è messo in testa di sconfiggere la morte a colpi di bambini torturati... per farci combattere fianco a fianco. Non una tregua, non una pace firmata con cera e sigilli, ma un orrore così profondo che ha scavato un buco nelle nostre rivalità, nel quale siamo precipitati tutti insieme.
«E' tempo», dice Kalina, comparsa alle mie spalle come un'ombra che respira. Ogni sillaba le esce con la grazia di un coltello: morbida, letale, inevitabile.
«Ci vediamo dentro», la saluta Bohemond, senza ottenere risposta. La osserviamo allontanarsi, silenziosa come la morte, diretta verso l'ingresso. Se tutto va come pianificato, tra poco Orstein Bach morirà per mano sua. Restiamo a contare i minuti, divorati dall'attesa.
Morna è in disparte, lontana da noi: è lei la responsabile di questo inferno di vento e pioggia. La immagino con gli occhi al cielo, le braccia aperte come a farsi penetrare dai venti, una statua di epoche remote come quelle scolpite nelle mura dei palazzi di Angvard.
Anche Annie, la Pristina della Mantide, non è qui: si trova a qualche centinaio di metri a est con due Risvegliati al guinzaglio. Quando è tornata al campo, poco fa, sembrava portarli a spasso neanche fossero una coppia di cagnolini. Dunque era proprio vero... Acab aveva ragione anche su questo: possono controllarli, li hanno sempre controllati. Avevamo accettato di aiutare Ghaan pensando che fossero vittime degli empi e sacrileghi stratagemmi di Marvin Barun e Logan Treize, e invece sono stati proprio loro, gli Eredi dell'Avamposto, a trasformare quelle abominevoli creature in armi di guerra. Maledetti.
Vicino a me, Kailah sta respirando piano, misurata, come se ogni respiro fosse l’ultimo. Sven la osserva con la solita espressione torva. Engelhaft sta in ginocchio, farfugliando parole sacre che si mescolano al rumore della pioggia: un'ultima preghiera prima di entrare in azione. Bohemond guarda in alto, verso i fulmini. Colin non sembra nervoso: fruga nella sua borsa, come per accertarsi di non aver dimenticato nulla. Chissà se pensa ai rischi che sta correndo Annie, nella pur auspicabile ipotesi in cui due o tre Pupilli abbocchino alle sue esche. Garruk aspetta impassibile, l'ascia serrata nella morsa delle sue enormi mani. Non sono soldati comuni, questo è certo: c'è in loro una fierezza che non si può ignorare. In mezzo a queste lame temprate dal fuoco, mi sento come il nodo di una corda troppo tesa. Sotto l'armatura e i voti da combattente volontario dell'Armata del Corno sento il gelo della sorte cingermi la schiena: anche nella migliore delle ipotesi, non torneremo tutti. Nella peggiore, non tornerà nessuno.
Il temporale monta, grondando nel cielo come un presagio. All'improvviso, le nubi si squarciano, esplodendo in un boato che scuote l'aria: un fulmine impietoso fa breccia sulle guglie della Rocca, proprio sopra al portone d'ingresso dell'Asilo. E' il momento.
«Compagne, compagni, è stato un onore», esclama Garruk, gettandosi per primo nella tempesta che adesso infuria dinanzi a noi. Quell'uomo ha fatto a pezzi troppi volti amici perché io possa dimenticarlo... eppure in questo momento non riesco a mettere a fuoco neanche una goccia del sangue di cui si è macchiato. Vedo solo un soldato che cammina senza voltarsi verso morte certa, e che per questo merita rispetto.
Ci muoviamo anche noi, puntando all'Asilo. Il nostro piano è semplice: avanzare protetti dalla tempesta, aspettare che un secondo fulmine crei un'apertura sul muro di quella che Colin ha chiamato "Sala dell'Analisi", e poi entrare. Ciò che accadrà dopo non lo sa nessuno ma grosso modo si tratta di raccogliere prove, distruggere sostanze pericolose e ammazzare il personale, ovvero le guardie e i topi di biblioteca. Solo loro, però: chiunque arrivi a difendere l'Asilo da fuori deve continuare a respirare, innalzati compresi. Se tutto andrà bene, Kalina farà fuori lo scienziato pazzo e ci aiuterà a varcare la porta sigillata all'ultimo piano, che di certo conterrà le schifezze peggiori. E se invece dovesse andare male... Beh, ho ancora tre giri di arcolaio da potermi giocare.
Posso concederti il potere di riavvolgere il tempo fino a TRE volte. Tutto ciò che dovrai fare sarà pensarlo, e le trame dell'evento che vorrai evitare si riavvolgeranno del tempo necessario per consentirti di evitarlo. Mi farai uscire?
Lo so, avrei dovuto rispondere diversamente: alla prova dei fatti non mi sono mostrata poi così diversa dallo scienziato pazzo e dai ricercatori di Ghaan. In un mirabile scherzo del fato, proprio mentre il mio cervello si arrovella sul criptico patto col diavolo che mi è stato proposto su quel ponte sospeso sul nulla dove Morna ci ha trascinati, la scritta sulla cancellata dell'Asilo emerge dall'acquazzone, palesandosi di fronte a noi: EXITUS ACTA PROBAT. Che poi, a quanto ci spiegava Kalina, non è che un modo più pomposo di declamare una delle massime preferite dell'Armata del Corno: "se la birra è buona, nessuno chiede con che acqua l'hai fatta". Questi siamo.
«Di là», ci fa segno Colin, l'unico che ha una vaga idea di dove andare. Avanziamo quasi alla cieca, i passi ovattati dal fango e dal ruggito costante della tempesta. L'acqua mi penetra ovunque, infiltrandosi tra le placche dell'armatura come dita gelide. Mi chiedo come se la cavino gli Innalzati in mezzo a tutto questo casino: magari anche i loro sensi aumentati vacillano sotto la furia degli elementi... Speriamo di scoprirlo il più tardi possibile.
Il cielo ruggisce come una bestia ferita, e per un istante ogni suono viene inghiottito da un silenzio sospeso: poi, immediatamente dopo, il fulmine colpisce la parete di pietra di fronte a noi con la forza del giudizio di una divinità incazzata a morte. Una lama di luce che lacera l'aria con uno stridio sovrannaturale e si abbatte contro il fianco dell'Asilo con forza e precisione spaventosa. Il fragore è talmente violento che sento le ossa vibrare, mentre schegge roventi si alzano nel cielo come pioggia rovesciata, vomitando un fiotto di luce accecante a pochi passi da noi.
Per alcuni istanti la breccia è soltanto fumo, polvere e ombre danzanti. Poi il vento spazza via quel velo, mostrandoci i contorni anneriti di una ferita scavata nelle carni della fortezza più inviolata delle Lande.
«Che spettacolo», esclama Kailah, visibilmente impressionata da questa formidabile manifestazione di potere magico.
Pochi istanti dopo, siamo dentro. Nella stanza ci sono due persone che capiscono rapidamente di essere di troppo. Sven ne zittisce uno, io e Bohemond ci avventiamo sull'altro che riesce a cacciare un urlo prima di crepare.
«Con questi si poteva, giusto?» chiede Sven per scrupolo, a cose ormai fatte: «sono CHIARAMENTE vestiti da studiosi».
«Alchimisti», conferma Colin, suscitando un sospiro di sollievo generale. Il tempo di raccogliere alcune prove e siamo pronti a proseguire.
La stanza successiva, quella da cui erano arrivate le guardie, secondo Colin contiene parecchie cose da distruggere. Quando entriamo non c'è anima viva, i ricercatori hanno fatto in tempo a fuggire. Mentre Colin inizia la sua opera, Bohemond, Sven ed Engelhaft si posizionano a presidio delle due aperture, preparandosi a ciò che inevitabilmente accade di lì a poco: tre guardie fanno il loro ingresso con le armi in pugno, tutte dall'apertura presidiata da Sven. La prima, grande e grossa, riesce a sorprenderlo con una mossa rischiosa, facendolo arretrare e consentendo l'accesso alle altre due. Una la affronta Bohemond, l'altra la prendiamo io ed Engelhaft. Armi lunghe. Mentre scambiamo i primi colpi, non riesco a non pensare al fatto che, se la sorte dovesse voltarmi le spalle, potrei morire con i tre giri di arcolaio ancora in canna. Sarebbe davvero uno spreco, specie considerando il prezzo che ho pagato - che ho messo in conto al Continente - per concedermi questa opportunità. «Se la cavano», esclama Sven, subendo un colpo fortunatamente innocuo... e ha ragione. Io vengo ferita al braccio, Bohemond evita per miracolo un colpo diretto al volto: poi la ruota gira, Sven colpisce il suo avversario alle gambe e di lì a poco riusciamo ad avere la meglio.
«Anche questi mi confermate che...» domanda Sven, trovando rapida conferma da Colin. E sono quattro.
Prove raccolte e materiali distrutti, è ora di muoversi. Torniamo nella sala da cui siamo entrati e da lì tagliamo per il corridoio, che diventa teatro di un altro scontro. Riusciamo ad avere la meglio, ma non a impedire che la porta che dà alla Sala Centrale, dove si trovano le scale, venga chiusa a chiave. Sembra robusta, quindi provo a scassinarla: tempo perso, visto che gli stronzi ci hanno spezzato la chiave dentro. Alla fine riusciamo a sfondarla ma perdiamo un sacco di tempo, e quando riusciamo a entrare troviamo quattro guardie pronte a riceverci, armate fino ai denti.
«Nessuno di loro ha le insegne di Uryen», fa notare Colin... il che è ovviamente un'ottima notizia, perché non c'è tempo per trattenere i colpi. Ma dobbiamo far presto, prima che possano arrivare rinforzi dalla Rocca. Il combattimento è cruento e coinvolge tutti. Ben presto imbarchiamo i primi danni seri: Bohemond resta ferito a un braccio, Kailah a una gamba, Colin al ventre. Engelhaft, con una torsione secca del bastone, colpisce alla tempia l'aggressore di Colin, salvandogli la vita e spegnendo la minaccia in un colpo solo. Alla fine i nostri avversari hanno la peggio, ma proprio quando lo scontro si conclude a nostro favore accade qualcosa che ci impedisce di festeggiare.
È probabile che ci abbiano visti combattere. Uno dalla sommità delle scale, l’altro da qualche fenditura nel muro. Forse potevano intervenire prima, in soccorso dei loro uomini... ma non l'hanno fatto. Si sono limitati a osservarci, come falchi appollaiati sul bordo di un dirupo, aspettando il momento migliore per colpire. Hanno studiato le nostre armi, le nostre distanze, la fatica che i fendenti scambiati ci hanno cucito addosso. E poi, come un colpo di vento improvviso che schianta un albero già provato dall'inverno, sono piombati su di noi.
Il primo dei Pupilli cade addosso a Bohemond, gettandosi dalle scale con grazia e velocità implacabili. E' una ragazza. Si lancia verso lo scontro senza esitazioni, come se la paura fosse qualcosa che le hanno estirpato insieme all’infanzia. Il corpo sottile si piega con eleganza innaturale, le braccia aperte come ali. Ciocche di capelli biondi, fradici e incollati alla fronte, le scivolano sugli occhi, nascondendo gran parte di un viso smunto e scavato. Un tempo, prima che il sangue che le scorre nelle vene la rendesse un'ombra spettrale, doveva essere bellissima: lo si intuisce nelle linee, nel taglio delicato della bocca, nella simmetria crudele delle guance spigolose. I suoi occhi sono spenti, vuoti, due pezzi di vetro immersi nell'acqua stagnante. E mentre si abbatte su di noi, capisco con un brivido che non sono la rabbia o l'odio nei nostri confronti a muoverla, ma la muta obbedienza a un volere che non conosciamo.
Il paladino non ha modo di opporre lo scudo e viene colpito una, due, tre volte: i colpi investono la corazza come gocce di pioggia, aprendo squarci vermigli sul torace e sul ventre. Engelhaft è lesto a prendere il suo posto, ma anche lui non può farcela da solo. Sven vorrebbe aiutarlo, ma un secondo Pupillo piomba su di lui con la rapidità di una vipera: un ragazzo, biondo anche lui, ma con tratti più duri e affilati - e un lampo di ghiaccio negli occhi. Anche lui, come la sua compagna, non emette un suono né tradisce alcuna emozione: due gemelli cresciuti nell’ombra, speculari nella ferocia e nell’innaturale controllo dei loro corpi.
Sven riesce a parare il primo colpo. Il ragazzo non pesa quanto lui, non ha la forza di un uomo temprato dal campo, ma ogni movimento è preciso, studiato, efficiente. Non spreca un solo gesto, non arretra, non sbaglia. E soprattutto: non si stanca. Con l'arma in pugno Sven è probabilmente il più forte di tutti noi, è la prima volta che lo vedo in difficoltà. Il giovane Innalzato non lo sovrasta con la forza né con la tecnica, ma con una fredda e implacabile regolarità. Sven prova a schivare un fendente basso e risponde con un affondo mirato alla gola: il Pupillo lo anticipa, scarta di lato, quindi rotea su sé stesso e lo colpisce alla spalla con una violenza che fa scricchiolare l’armatura. Sven vacilla. Morde un’imprecazione, poi arretra, cercando spazio. Mi affianco a lui mentre Colin, benché ferito, prova a dare una mano ad Engelhaft, ma sappiamo entrambi che si tratta di un tentativo velleitario: non siamo all'altezza di queste creature.
Sven viene ferito alla gamba, quindi trafitto da un terribile affondo al ventre che lo costringe ad abbandonare l'arma e accasciarsi al suolo. Di lì a poco è la volta di Engelhaft, raggiunto da un altro colpo mortale. Infine, tocca a me: non riesco neppure a vedere la lama, sento solo il dolore lancinante e il calore del sangue che comincia ad abbandonarmi mentre le gambe mi costringono ad accasciarmi al suolo.
«Arrendetevi», esclama la ragazza: «gettate le armi e sdraiatevi a terra». Di fronte a lei Bohemond si sforza di riprendere fiato, sanguinando copiosamente.
«Sei Freya, vero?» le chiede Kailah. L'innalzata la scruta con i suoi occhi inespressivi. «Non siamo qui per farvi del male. Siamo amici di Vodan... Tuo fratello. Lo conosciamo, abbiamo combattuto insieme. Siamo venuti qui per voi, per liberarvi da questa maledizione. Non sei sola. Lui non avrebbe voluto... che finisse così».
"Freya" non risponde subito: il volto resta immobile, contratto in quella maschera di pietra scavata dalla sofferenza, ma nei suoi occhi, qualcosa si incrina. Un battito, una minuscola crepa nel gelo. Poi parla, con una voce che non è più quella di una bambina né ancora quella di una donna, ma un’eco spezzata, come se le parole le si staccassero dalle labbra a fatica.
«Vodan è morto. Ed è morta anche Freya.»
La pioggia sembra rallentare per un istante. Kailah resta immobile, scossa.
Bohemond, invece, decide che non c’è più nulla da dire. Si lancia avanti, sollevando la spada con le ultime forze che gli restano, in un ultimo, disperato assalto.
Freya non si volta, non si sposta, non urla. Con un movimento secco, preciso, si abbassa, rotea la spada sulla testa e sferra un colpo che non ha niente di umano. La lama, coperta di sangue, risale a tracciare un arco che fende l'aria in mezzo a noi: subito dopo, il corpo di Bohemond crolla a terra in una pozza rossastra.
«Arrendetevi», ripete Freya con voce ferma, meccanica, priva di emozione: «gettate le armi e sdraiatevi a terra».
Kailah tenta nuovamente di dire qualcosa, ma l'altro Innalzato la interrompe. «Basta parlare», esclama puntandole la spada al volto. «Fate come dice, o morirete qui e ora». Parole di circostanza, un rito vuoto che prelude all'inevitabile esecuzione che ci attenderebbe qualora dovessimo scegliere la resa. Ma che alternativa abbiamo, sconfitti e moribondi come siamo? L'unica speranza è che Morna, oltre al temporale, possa calare qualche altro asso. Ma anche quell'illusione ci viene strappata dal petto nel momento in cui il portone dell'Asilo si apre, rivelando le sagome di Alfiere e Regina. E tra di loro, trasportato come un trofeo spezzato, il corpo esanime di Morna, la testa reclinata in avanti, i capelli grondanti pioggia e sangue.
«Ben fatto», commenta il Pupillo che ha affrontato e sconfitto Sven con un cenno di approvazione. Regina alza lo sguardo verso di noi, la pioggia che le scivola lungo il volto come lacrime che non può più versare. Non parla. Non ne ha bisogno. I suoi occhi incrociano i miei, e in quello sguardo, per un istante, c’è qualcosa di... umano. Di stanco. Di dispiaciuto. Mi dispiace, sembra dire. Mi dispiace, ma è finita.
Kailah crolla in ginocchio. Colin le sussurra qualcosa, ma la sua voce è inghiottita dall'ennesimo rombo di un tuono. Engelhaft, coperto di sangue ma ancora vivo, osserva immobile la scena, lo sguardo perso sul cadavere di Morna, come in attesa di un ultimo bagliore salvifico. Ma il fuoco della maga si è spento, a differenza del temporale che ancora infuria a pochi passi da noi. E in quel frastuono comprendo che la nostra parte è finita: nessun fulmine ci salverà, nessun incanto ribalterà l'esito funesto della nostra spedizione.
I due Innalzati artefici della nostra disfatta si voltano nuovamente verso di noi, scrutandoci uno a uno come per capire il da farsi: per Sven, Bohemond, Engelhaft e me non c'è speranza, agli altri forse toccherà marcire qualche giorno in prigione prima dell'inevitabile... L'inspiegabile senso dell'onore di cui sono dotati non sembra renderli propensi a risolverla qui e ora, in fretta e in modo indolore. Magari cambieranno idea quando si accorgeranno che lo scienziato pazzo è crepato, nella speranza che almeno Kalina sia riuscita a svolgere il suo compito.
Dovrei farlo adesso, finché sono ancora cosciente: da un momento all'altro rischio di perdere i sensi. Eppure, qualcosa dentro di me mi spinge ad aspettare. Non ancora. Ripenso ancora una volta alla formula che ho accettato: Tutto ciò che dovrai fare sarà pensarlo, e le trame dell'evento che vorrai evitare si riavvolgeranno del tempo necessario per consentirti di evitarlo. Per consentirmi di evitarlo. Come posso impedire a questa disfatta di ripetersi? Ho bisogno di informazioni, devo...
«Notizie sulla Pristina della Mantide?» chiede il Pupillo.
Regina scuote la testa. «E' andata come avevi previsto: ha ucciso Fante ed è scappata: Cavaliere la sta seguendo, ma gli abbiamo detto di non ingaggiarla. Noi... abbiamo preferito... far fuori la maga». C'è una punta di incertezza nelle sue parole, come se non fosse sicura.
«Avete fatto bene: adesso però andategli dietro. Ricordate che Orstein la vuole viva». Poi torna a rivolgere la sua attenzione verso di noi.
Sorrido, sforzandomi di ignorare il dolore. Hai capito, Annie... Ne ha persino fatto fuori uno. Non mi sorprende che lo scienziato pazzo la voglia viva. Il dolore si fa sempre più intenso. Il pupillo mi guarda e comprende che è arrivato il momento di concedermi un ultimo, definitivo atto di pietà. Lo osservo mentre si avvicina, alzando la spada ancora lorda del sangue di Sven.
Non posso attendere oltre: mi dispiace, giovanotto, ma mi tocca declinare l'invito. Magari... la prossima volta.
E poi urlo quelle parole maledette, sperando con tutto il cuore che non si tratti soltanto di una gigantesca presa per il culo.
Nora fa del suo meglio per calmare la piccola, ma non è facile: questa famiglia ha vissuto troppi traumi per restare serena in un momento del genere. Sono venuti per me? Se così fosse, non me lo perdonerei mai. Queste persone non meritano altre sofferenze.
«Andrà tutto bene, vero?» mi chiede Desiderio, il più piccolo della cucciolata di Scimus e Mà.
«Certo che sì», gli rispondo accarezzandogli la testa. «E poi tu sei quello coraggioso, no?»
Lui annuisce convintamente. «Se dovessero salire, ti proteggerò io!» Aggiunge con un'espressione seria.
Gli sorrido. «Ti ringrazio, ma vedrai... non servirà.»
In quel momento un sonoro rumore di passi rompe il silenzio, facendoci sobbalzare tutti. «Sono io!» mormora Eliane. Patty apre alla figlia, che entra trafelata insieme a Gertie. «Non sono riuscita a trovare gli altri... non so dove sono!»
«Non preoccuparti», la rassicura Patty, che poi si volta a guardare me: mancano ancora Ruben, Last e Freya.
«Dovrebbero essere con Arken... credo», ipotizza Nora. «Volevano fare ancora quella cosa dei fantocci». Me lo auguro... Ark è in gamba, dovrebbe sapere cosa fare in questi casi. Ma se così fosse, come mai non sono tornati qui?
La nostra tensione viene spezzata all'improvviso da un grido di dolore proveniente dal piano terra: Gertie si tappa le orecchie, Laury singhiozza, Eliane e Patty si portano una mano alla bocca. Il grido è presto seguito da uno schianto: legno spezzato, forse la porta.
«Si può sapere che problemi avete?»
«Se vi sedete e ci ascoltate con calma, non vi succederà nulla!»
«Non siete soldati! Non avete nessun diritto di...»
Frammenti di frasi provenienti dal piano di sotto si accavallano l'un l'altro, sovrastati dai deboli singhiozzi di Laury. «Oh Dei!» mormora Patty, abbozzando una preghiera.
Rifletto sul da farsi. Restare qui non serve a nulla: o vado a cercare Freya o scendo a dare una mano come posso. Già, ma come posso? Non sono certo una tipa da attacco frontale: se volano due schiaffi ne prendo tre. Quanto a Freya, potrebbe essere ovunque.... Magari al sicuro, visto che il grosso di questi manigoldi sta qui. No, decisamente meglio scendere di sotto.
«Cosa vuoi fare?» Mi chiede Patty non appena si accorge delle mie intenzioni.
«Non lo so neppure io» le rispondo, scuotendo la testa: «ma non posso starmene qui a non fare niente: vedo se riesco a dare una mano a Karel e agli altri».
Patty scuote la testa: «lascia fare a loro, è meglio: qui sei più al sicuro».
«Il fatto è che... esiste la possibilità che io conosca queste persone: potrebbero essere venuti per me».
La donna mi osserva: conosce la storia. «E anche in quel caso è meglio se non ti vedono, no?»
«Sei gentile a dire così: ma se stanno cercando me, un piano e quella porta non faranno la differenza. La sfonderanno e mi vedranno comunque, e a quel punto potrebbero pensare di punirvi perché mi avete nascosta. Credimi, è meglio così».
«Vengo con te», esclama Desiderio. «Ti guardo le spalle». In una mano stringe il suo cero, nell'altra il piccolo coltellino con cui era intento a intagliarlo fino a poco fa. Stamattina mi ha confidato che stanotte avrebbe voluto accenderlo e custodirlo insieme a me.
«Grazie, ma non è possibile», gli dico con tono dolce ma fermo. «E' una cosa che devo fare da sola. E poi tu devi custodire il nostro cero, no? Stanotte lo dobbiamo accendere, non ricordi?»
«Davvero? Me lo prometti?»
«Certo che si: te lo prometto».
Varco la porta, che subito Patty richiude alle mie spalle. E' robusta e pesante, ma non fermerà quei balordi quando e se decideranno di salire. Mentre scendo le scale, ripenso a ciò che Vodan mi ha spiegato sul ruolo di Kalina la Divina e delle sue compagne alle Case della Gioia. Soldatesse che combattono con armi diverse dalle mie, così le ha definite. Detta così suona male, ma quando mi ha raccontato della scelta coraggiosa di Giada e del ruolo giocato da quella sirena ho compreso il reale significato di quelle parole. Devo ispirarmi a lei, in questo momento difficile: devo fare ciò che è necessario per risolvere questa crisi.
Questa è la risoluzione con cui scendo le scale, subito smorzata dal tetro spettacolo che si palesa ai miei occhi. I soldati hanno varcato l'ingresso, sfondato la porta e raggiunto la sala da pranzo: tre di loro hanno sguainato le armi, rivolgendole contro Karel, Gomar, Scimus e Mà, anch'essi armati; un altro si volta verso di me. Un altro ancora, presumibilmente il capo, brandisce dei fogliacci luridi su cui qualcuno avrà certamente scritto che questi maramaldi hanno il permesso speciale di fare tutto ciò che pare a loro. Come sempre. Trent aveva detto che erano sette, ma ne vedo soltanto cinque: forse gli ultimi due sono rimasti fuori?
Il mio arrivo desta un certo interesse. Cosa farebbe Giada? Il capo mi squadra dall'alto verso il basso, le dita che tamburellano sull'ascia da lancio assicurata alla cintura. E' con lui che devo parlare, da pari a pari e fissandolo negli occhi, ignorando gli inopportuni apprezzamenti della soldataglia.
«Buonasera», mi saluta accennando un inchino: «stavamo giusto facendo le presentazioni».
«Di grazia, potrei sapere cosa volete? Ci stavamo preparando a festeggiare Ostàra».
«Siamo venuti a proporre un accordo vantaggioso», risponde quello, agitando i fogliacci. «Tutto regolare, ovviamente. Garantito dalla Rocca».
«Ovviamente».
Stanno cercando qualcuno, è evidente. Qualcuno che probabilmente non hanno mai visto in faccia. Se è gente mandata da qualche parente di Emon Creedon, potrebbero avere delle descrizioni...
«Non è vero», ribatte Karel: «Non è quello che hanno detto poco fa. Vogliono portare via i marmocchi». I marmocchi? In che senso?
«Beh, si», risponde il capo, sollevando le spalle. «Del resto è proprio di questo che parla l'accordo. Tuttavia, anche scambiare due parole con una bella ragazza non ci fa mica schifo...»
«Andatevene», ringhia Scimus, digrignando i denti e brandendo la sua cucchiara - una grossa pala da neve - verso il soldato più vicino. «Andatevene ora, finché potete farlo: qui non c'è niente per voi». Quello, per tutta risposta, solleva un batocchio di legno non meno lungo e pesante della rancogna di Mà.
Capisco in fretta che il compito di Giada e Kalina in questi frangenti, ovvero il mio compito ora, è impedire alla situazione di degenerare.
«Perché invece non mettiamo via le armi e ci sediamo?» Così dicendo mi avvicino al tavolo. «Sono certa che potremmo raggiungere un accordo, magari diverso, ma comunque... soddisfacente».
Guardo il capo negli occhi, quindi abbasso lentamente lo sguardo. Il pavimento è ingombro dei resti dei ceri, caduti a terra e in gran parte spezzati. Aspetto che si avvicini, cosa che puntualmente accade. Mi scruta, quindi mi prende il mento tra le mani, sollevandomi il volto verso la luce delle torce che scoppiettano nel silenzio della stanza.
«Come ti chiami?»
«Saga», gli dico. E' il momento della verità: se sono venuti per me lo saprò adesso, guardandolo negli occhi. Con stupore, realizzo che non è affatto così. Non è gente dei Creedon. Non stanno cercando noi.
«E dimmi, Saga», continua lui, con voce suadente. «Quanti anni hai?»
«Ventidue».
Annuisce con un sorriso compiaciuto. Fatti coraggio, Saga: è il tuo momento. Se giochi bene le tue carte, puoi sperare di accontentarlo da sola e mandarlo via con poco. Del resto è questo che sei diventata, no? Un pugno di mesi di pace e illusioni non possono cambiare il destino a cui questo feudo maledetto ti ha condannata.
«E allora...» mormora lentamente, avvicinandosi con la bocca al mio orecchio e abbassando la voce fino a renderla quasi un sussurro.
«.... e allora non servi a un cazzo».
Il guanto ferrato dell'armatura mi colpisce in pieno volto, lacerandomi la guancia e iniettandomi il naso di sangue. Precipito su una sedia, che si rompe sotto di me riempiendomi le mani e i fianchi di schegge affilate. Non sento il rumore del mio corpo che cade, nelle orecchie c'è solo un fischio assordante che mi arriva fin dentro al cervello. Il capo mi assesta due calci in rapida successione, quindi mi sputa addosso. «Troia che non sei altro! Pensavi di fottermi, eh? Che cosa avevi intenzione di fare?». Mi raggomitolo a terra, cercando di proteggermi la testa dall'assurda reprimenda di questo pazzo violento. Dove ho sbagliato?
Il fallimento del mio tentativo di mediazione provoca conseguenze opposte a quelle che erano le mie intenzioni: la situazione degenera. Mà brandisce la rancogna e si avventa su uno dei soldati, gridando qualcosa che non comprendo. Scimus mi si piazza davanti, mulinando la cucchiara e costringendo il capo a fare due passi indietro. Goran blocca un fendente al corpo e risponde con una gomitata all'indirizzo di uno dei soldati, mentre Karel viene colpito alla spalla dall'altro, per fortuna - credo - in modo non grave.
«Fatevi sotto, vigliacchi!», urla il capofamiglia alla marmaglia di balordi. «Ben detto!» Gli fa subito eco Scimus: «Facciamo vedere a questi bastardi che sono venuti a mungere la vacca sbagliata!».
Provo a rialzarmi, puntellandomi sugli avambracci sanguinanti: devo aiutarli, devo fare la mia parte. Raggiungo una credenza, mi sollevo, torno in piedi, spreco istanti preziosi alla disperata ricerca di qualcosa da afferrare: una scopa di saggina, un vaso, una padella per le castagne. Sono lenta. Nel momento in cui riesco finalmente a girarmi, il manico della padella stretto tra le mani tremanti, Scimus stramazza al suolo, colpito al volto da un fendente. Un istante dopo è la volta di Karel, raggiunto alla schiena da un secondo colpo di mazza drammaticamente più energico del primo. Goran e Mà sono ancora in piedi, ma a breve si ritroveranno con due avversari a testa.
«Io aspetterei settembre, per quella» mi schernisce il capo, ruotando la spada nella mia direzione. «Ma se proprio hai fretta di usarla...»
Quello che accade dopo è fin troppo scontato. Mi avvento su di lui agitando la padella, consapevole di non avere alcuna speranza, e così è. Un taglio sul dorso della mano mi costringe ad abbandonare la presa, un calcio ben assestato mi spedisce nuovamente con la faccia sul pavimento.
Agli altri non va molto meglio: la rancogna morde l'aria un paio di volte, quindi finisce anch'essa a terra, ben presto seguita da Goran e Mà. Abbiamo perso. E adesso?
Il capo mi posa la punta dello stivale sulla spalla, poi comincia a spingere, sempre più forte, osservando con un ghigno sadico la mia smorfia di dolore crescente. Non è venuto per me ma in compenso mi odia più di chiunque altro. Deve avere il dente avvelenato contro le donne: non lo manderà Creedon, ma lo ricorda parecchio. Anche io ti disprezzo, sai? Anche a me fanno schifo quelli come te. Non sei che l'ennesimo spaporchio molesto, egoista e violento, condannato ad essere respinto per tutta la vita. Stringo i denti, cercando di resistere per non dargli soddisfazione, ma non è umanamente possibile. Il suo piede accompagna la mia articolazione in una torsione innaturale, costringendola prima a tendersi, poi a piegarsi fino a raggiungere il limite, e infine, inevitabilmente, a dislocarsi con un rumore sordo. La mia bocca si contorce in un grido strozzato. Il dolore è atroce, ma riesco a non perdere i sensi. Non ancora.
«Salite a prendere il resto di questi pezzenti», lo sento ordinare a due dei suoi sgherri. «Voialtri, disarmateli e teneteli d'occhio».
Con la coda dell'occhio li osservo mentre salgono le scale. Ripenso alle parole di Karel: Vogliono prendere i marmocchi. Possibile? Perché? A cosa gli servono? Sia come sia, spero che Freya, Ruben e gli altri siano riusciti a scappare lontano.
Vodan... dove diavolo sei? Abbiamo bisogno di te! Avevi promesso...
RUBEN
«Come va il ginocchio?»
«Migliora a vista d'occhio», rispondo a Last con un sussurro, mentre continuo a scrutare i dintorni. Dove si sarà cacciato il nostro inseguitore?
«Credo che abbia smesso di seguirci: magari è andato dietro ad Arken e Freya».
Mi auguro di cuore che non sia così. Più riusciamo a tenere l'attenzione di quel soldato rivolta verso di noi, più loro avranno il tempo di raggiungere il boschetto e mettersi al sicuro.
«Eccolo», mormora Last all'improvviso: «Laggiù, vicino al semenzaio!»
Perfetto, penso mentre raccolgo una pietra tra le mani. Mentre mi accingo a tirarla, ripenso alle innumerevoli volte che abbiamo giocato a nascondino in questo labirinto di alberi e arbusti che circondano casa nostra. Io, Freya e Arken eravamo i più bravi. L'unica differenza è che stavolta dobbiamo vedercela con un adulto. L'unica differenza è che stavolta non è un gioco. Beh, vediamo come se la cava questo finto soldato. Lancio il sasso, che compie una lenta parabola nella sua direzione, quindi mi accovaccio tra i cespugli.
Thud!
«Lo hai mancato!», bisbiglia Last.
«Idiota, non miravo a lui: preparati a correre appena si sposta». Last non ha mai imparato le tattiche basilari del nascondino... per questo finisce sempre a contare.
Prevedibilmente, il rumore attira l'attenzione dello scagnozzo: quando si volta, dandoci le spalle e facendo un paio di passi nella direzione che speravo, scatto in piedi e comincio a correre. Il ginocchio abbaia ancora, ma non morde più. Last mi segue come un'ombra: insieme risaliamo furtivamente il sentiero, tenendoci bassi e sfruttando la copertura della fitta siepe di alloro che costituisce il vanto di zio Scimus. Il nostro inseguitore si accorge della manovra e si mette a inseguirci, ma nel punto dove decide di tagliare non c'è un sentiero e ben presto l'erba alta lo costringe a rallentare. Ricordo quando Hart mise il piede dentro un nido di serpenti proprio da quelle parti e mi auguro che al nostro inseguitore succeda la stessa cosa, magari anche peggio. Lo sento bestemmiare: ha capito che adesso dovrà tornare indietro e fare il giro lungo. Bene così.
«Ahah, hai sentito? Ha detto porco p...»
«Ho sentito: non ti distrarre, resta concentrato».
Risaliamo verso casa, approfittando del vantaggio di tempo che ci siamo guadagnati. Il sentiero si apre, regalandoci uno scorcio sul vialetto che porta all'ingresso di casa nostra. I cavalli dei finti soldati, malmessi e denutriti, pascolano davanti alla porta, addentando con scarsa convinzione le primule di zia Mà.
«Hai visto?» esclama Last, puntando il dito poco più indietro: «hanno anche un carretto».
«Già. Mi chiedo cosa se ne facciano, visto che è vuoto». Il sospetto è che siano venuti per riempirlo con la roba nostra. Ci avviciniamo con cautela, fino a sentire stralci della discussione che sta avendo luogo all'interno: a quanto pare non mi sbagliavo, questi cercano qualcosa... O peggio, qualcuno. Devo portare via Saga.
«Aspettami qui», dico a Last: «io cerco di entrare dal retro».
«Va bene, ma... cosa devo fare se torna il soldato?»
«A quel punto mi fai un segnale... il fischio da pastore, d'accordo?». Il fischio da pastore è la specialità di Last, quando lo fa si sente fino a Uryen. «E poi corri da Oger Esmor come se avessi il pepe al c...» La frase mi muore in gola, mentre il mio sguardo si leva verso l'abitato di Esmor e incontra la grande colonna di fumo che si perde nelle ombre della sera ormai incombente. Sotto di lei, bagliori giallastri che non promettono niente di buono.
«Oh cazzo», mormora Last. «Ma che, hanno già acceso i pupazzi?»
Scuoto la testa. Magari, Last. Non è certo paglia, quella che sta bruciando. «... E poi corri verso il boschetto, d'accordo? Così ci incontriamo tutti quanti lì».
«D'accordo. Ma non tirarmi il pacco, eh? Non fare che poi non venite». Lo sento stringermi il braccio, forte. Anche lui adesso ha paura. Come me.
«Tranquillo: te lo prometto».
Di lì a poco raggiungo la porta sul retro: chiusa. Anche le finestre sono sbarrate. Sollevo gli occhi alla ricerca di un'apertura verso cui potermi arrampicare e vedo Eliane che mi guarda dall'alto.
«S-C-A-P-P-A», mi comunica senza emettere un fiato, enfatizzando i movimenti delle labbra: quindi indica in basso, appena dietro di me. Mi volto giusto in tempo per intravedere la sagoma dell'ennesimo soldato, che proprio in quel momento fa capolino dall'angolo opposto della casa.
«Hey, tu: fermo lì!»
Fossi matto. Scatto a correre a perdifiato nella direzione opposta, ignorando i guaiti lamentosi del ginocchio, mentre quello si getta all'inseguimento. Che faccio? Dove vado? L'impulso è quello di dirigermi verso il boschetto, ma prima devo trovare il modo di avvertire Saga. Viro dunque in direzione del frutteto, con l'idea di seminare anche questo inseguitore e poi, magari, tornare sul retro e cercare di contattarla tramite Eliane. Posso farcela. Mi sento come i protagonisti della storia che ci raccontava nonna Laurel, in cui una banda di ragazzini - i "marmocchi", come li chiamava lei - riusciva a mettere sempre nel sacco i soldati della Signoria. Tra un attimo raggiungerò il frutteto. Posso farcela. Non sento più i passi del mio inseguitore, forse ha mollato... ma non posso voltarmi, se mi voltassi perderei velocità e non è una buona idea. Posso farcela.
Poi sento un rumore strano e perdo contatto con il terreno. Rotolo a terra, senza capire cosa sia successo. Un'altra radice? Provo a rialzarmi e a quel punto sento il polpaccio che comincia a urlare a squarciagola, ma una roba che al confronto il ginocchio era muto. Un dolore assurdo, più forte della puntura di un calabrone. Mi tocco la gamba e sento che è bagnata, poi mi guardo le le mani e le vedo rosse. Ma come...
«Dove pensavi di andare, moccioso?» Il bastardo si avvicina a grandi falcate, stringendo in mano quello che sulle prime mi sembra un ramo. No, non è un ramo... è un arco. Abbasso gli occhi sulla mia gamba sinistra, che proprio non vuole saperne di muoversi, e vedo il piccolo pennacchio di piume grigie che spunta dal terreno a circa un metro da me. Pensa se mi prendeva in pieno.
«Ecco, lo vedi cosa mi costringi a fare? Voi mocciosi la dovete piantare di scappare! Non vi hanno insegnato che dovete ubbidire agli adulti, da queste parti?»
Da queste parti. Questi tizi non sono di Dossler, e forse neppure dell'Anterlig. Da dove vengono, allora? E cosa vogliono da noi?
«Avanti, alzati!»
Scuoto la testa. E poi, anche se volessi, la gamba mi fa un male d'inferno.
«Non fare la femminuccia», insiste quello, allungando una mano con l'intenzione di tirarmi su. «Altrimenti mi toccherà fart...»
La frase gli muore in gola, mentre un altro pennacchio di piume - stavolta di colore azzurro - affiora lungo la trachea, appena sopra al bavero dell'armatura.
«Non provare a toccarlo, bastardo!»
Astea? E' la voce di Astea! La vedo emergere lentamente dal frutteto, tra le ombre della sera e la foschia indotta dai rinnovati spasmi della gamba, mentre incocca un'altra freccia. Ma non è necessario: il finto soldato si porta le mani al collo, cercando invano di afferrare l'aria che non ha più modo di inspirare, quindi crolla al suolo in attesa che la vita lo abbandoni. Un colpo perfetto.
«Uno in meno», commenta lei, senza scomporsi. «Come stai?», mi chiede poi, guardandomi la gamba.
«Mi ha preso di striscio... me la caverò».
«Ce la fai a camminare?»
«Si, ma... perché? Cosa vuoi fare?»
«Che domande», risponde lei, brandendo l'arco e indicando la daga che porta alla cintola. «Ammazzarli tutti».
«Sei matta? Non ce la farai mai: sono in sett...» Poi metto a fuoco il corpo esanime riverso davanti a noi. «... ok, sono in sei. Ma sono comunque troppi, per te da sola».
Le mie parole smorzano la sua risolutezza. Riflette. «Hai ragione», conclude poi con un sospiro. «Dobbiamo cercare aiuto. Forse dagli Esmor?»
«Non penso sia una buona idea: mi sa che ci sono già passati. Io e Last abbiamo visto una colonna di fumo...»
«Capisco. Vorrà dire che cercheremo altrove: aspettami qui, torno subito».
Resto solo col morto, guardandola sparire tra i peschi in fiore con la grazia di una nereide delle lande. Mia sorella mi ha appena salvato la vita. E' molto meglio dei protagonisti delle storie di nonna Laurel. Come ha fatto a diventare così forte e coraggiosa? Mi avvicino al cadavedere. Siamo sicuri che sia morto, si? La pozza di sangue in cui è riverso non sembra lasciare adito a dubbi. Oltre a un arco aveva anche una daga, simile a quella di Astea. La sfilo con cautela dal fodero, cercando di non tagliarmi. Da oggi, questa sarà la mia arma.
«Attento a non tagliarti», mi avverte, mentre riemerge dal frutteto in groppa a Jofnar, il suo cavallo: «quella fa male».
«Lo so: adesso è mia».
«Sta bene, puoi prenderla: adesso però salta su. Vediamo se riusciamo raggiungere qualche soldato di Uryen... quelli veri, intendo».
Saltare non è esattamente facile, considerando la condizione delle mie gambe, ma in un modo o nell'altro riesco a issarmi su Jofnar. Certo che è davvero enorme, oltre che bellissimo. Io e Laury le avremo chiesto almeno cento volte come è riuscita ad averlo: il duello rituale, la trattativa, il vestito da principessa. Per questo gli ha dato quel nome particolare: nella lingua dei Nordri significa principe.
«Sei pronto?»
Annuisco. In men che non si dica siamo lanciati al galoppo, in direzione della torre Nove.
«Astea?»
«Dimmi».
«Finirà tutto bene, vero?»
«Ma certo. Andrà tutto bene, vedrai: dobbiamo solo trovare Ivan Reiner, o John Striker, o Kelly... o Vodan».
«Me lo prometti?»
«Te lo prometto».
KAREL
«Vi prego, non fatelo... possiamo pagare». Vorrei poter fare qualcosa in più che pregare questi figli di puttana, ma la realtà è che ci hanno conciati per le feste. Le armi devi saperle usare, diceva sempre il mio buon amico Stern Rock, altrimenti è meglio non averle. Aveva ragione lui... alla fine abbiamo soltanto fatto una figura di merda. Persino Gomar, che un pò di Rocca l'ha fatta, non è riuscito a combinare molto.
«Non rompere i coglioni, vecchio», mi risponde il loro capo, che gli altri chiamano Grom. «Potevi pagare prima, quando ti abbiamo dato la possibilità: hai voluto alzare la cresta, ed ecco il risultato».
«Abbiamo amici nell'esercito», insisto: «abbiamo sempre fatto il nostro dovere. Ci deve pur essere qualcosa che possiamo...»
La voce mi muore nel petto, quando vedo uno dei soldati che trascina sulle scale il corpo esanime di mia moglie.
«Nora! NORA!»
«Tranquillo, oh... Mica è morta! Le ho dato solo una mazzata in testa, ma si riprenderà... credo».
«Perché? PERCHE'? Maledetti... maledetti assassini». Mi trascino in direzione delle scale fino a raggiungere il punto in cui si trovano Saga e Scimus: entrambi vivi, benché ridotti all'impotenza come noi.
«Hai capito, Grom? Questo pensa che siamo degli assassini».
«Tocca spiegarglielo, che non è morto nessuno...».
«... per ora».
«Esatto. Per ora. O, per meglio dire, non ancora».
«Ancora per poco, però... Se continuano a fare gli stronzi a 'sta maniera!».
«Già», conclude Grom, interrompendo il siparietto imbastito dai suoi sodali. «Per questo è il caso che ci diamo tutti una calmata. D'accordo?»
Annuisco, come se non avessi capito che ci sta soltanto prendendo per il culo. Ci siamo sforzati di restare calmi, persino quando ci hanno fatto capire cosa volevano. Hanno iniziato loro a colpirci, quando Saga ha provato a... mediare... nell'unico modo possibile... E guarda come l'hanno ridotta. Bestie, questo sono: alla stregua dei Nordri, forse addirittura peggio. Ma adesso non posso fare altro che assecondarli. Mi sforzo di guardare l'unico lato positivo: quel bastardo ha ragione, non è ancora morto nessuno. E il mio compito è mantenere tutti in vita, costi quel che costi.
Grom si siede sulla mia poltrona, quindi mi indica l'unica sedia ad essere rimasta in piedi. «Siediti, Karel. Ti chiami Karel, giusto?»
Annuisco ancora. Raggiungo la sedia e mi tiro su. Grom è l'unico con un'arma e un'armatura decenti, gli altri hanno tutti mazze, bastoni e pezzi di cuoio male assortiti. Eppure non si comportano come dei semplici banditi. Mercenari in disgrazia? Disertori?
«Posso vedere quelle carte?» Chiedo educatamente, sforzandomi di contenere la rabbia.
«Oooh, così mi piaci, Karel» risponde Grom con soddisfazione. «Guardiamo cosa dicono le carte».
Ciò che leggo ha dell'incredibile. Niente di quanto c'è scritto ha la minima possibilità di essere vero. Dai nove ai quattordici... Ma che senso ha?
Guardo Grom negli occhi, scuotendo la testa. «Conosco bene i soldati della Rocca: non autorizzerebbero mai una cosa del genere. Il comandante Barun...»
«Il "comandante" Barun è un disertore e non comanda più nulla da settimane», si affretta a precisare Grom, come se ripetesse una filastrocca imparata a memoria: «adesso al comando c'è Sir Gadman Scherer. Lo sanno anche i sassi...».
Lo so bene anch'io: l'ho detto apposta per vedere se lo sapeva lui, e a quanto pare è così. Questo significa che la storiella dell'acquisto di bambini non se la sono inventata loro di sana pianta. E chi, allora? Possibile che davvero...
«A quanto pare non conosci così bene i soldati della Rocca. Scommetto che non conosci neppure l'Asilo...».
«Qui c'è scritto VOLONTARIAMENTE» lo interrompo, puntando il dito su uno dei fogli. «... che accetteranno SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE di...».
«Ma certo! SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, s'intende. E infatti noi siamo proprio qui per convincervi che è la scelta migliore che potete fare. Chi può convincerli ad andare meglio dei loro genitori? E i soldi saranno divisi equamente: metà a loro, che vi daremo adesso, metà a noi che vi abbiamo fornito questa opportunità, e siamo tutti contenti. Nessuno muore, nessuno si fa male... L'accordo perfetto».
«Spiacente, non venderemo i nostri figli alla Rocca di Tramontana. Vi ringraziamo per l'offerta, ma preferiamo rispettosamente declinare». Come se ne avessimo realmente facoltà. Ma ormai non resta che continuare a tenere in piedi questa stupida recita, nell'attesa che questo bastardo si decida a dirmi cosa intende fare.
«Davvero? Che peccato». Grom si alza, scrollando le spalle con l'aria sconsolata di un mercante non è riuscito a concludere un buon affare. «Beh, ragazzi, avete sentito il capofamiglia: purtroppo non se ne fa niente». E così dicendo si dirige verso la porta, facendo cenno a tutti di levare le tende.
«Che peccato!»
«Oh no! Questa non ci voleva.»
«Davvero una disdetta!»
«Eravamo a tanto così dal chiuderla, e invece...»
Non so se mi sta più sui coglioni Grom o il teatrino di guitti che gli tiene il gioco. Gomar mi osserva. Gli faccio capire di tenersi pronto, tra pochi istanti questo farabutto smetterà di fare lo scemo e saremo chiamati a giocarci il tutto per tutto.
«Aspetta un momento», esclama Grom, un attimo prima di varcare la porta ormai scardinata. «Perché non chiediamo direttamente ai ragazzi?»
«Buona idea!»
«Perché no?»
«Mi sembra il modo migliore per cavarsi da questo impaccio.»
«D'altronde non sta mica bene che decidano i genitori per il loro avvenire...»
A un cenno di Grom, i miei familiari - Patty, Eliane, Gertie, Desiderio e la piccola Laury - vengono condotti giu dalle scale e messi in fila indiana di fronte al tavolo, che viene rimesso in piedi. Nora, ancora svenuta, viene adagiata sulla mia poltrona, mentre Grom rimane in piedi. Scimus, Saga e Mà restano riversi a terra.
«Eccoci qua», esordisce Grom. «Adesso faremo un gioco, vi spiego come funziona. Prima di tutto vi dividerete in due gruppi: quelli che non hanno ancora compiuto quindici anni possono restare qui, davanti a questo tavolo: gli altri andranno a mettersi lì, di fianco alla poltrona in cui riposa la signora. Forza, da bravi».
Desiderio e Laury sono gli unici a restare vicino al tavolo, gli altri raggiungono lentamente Nora. Tutti hanno capito che, almeno per il momento, devono ubbidire senza fiatare.
«Molto bene», riprende Grom rivolgendosi ai due rimasti di fronte a lui. «Adesso vi darò la possibilità di scegliere tra due possibili opzioni: una vi consentirà di guadagnare un bel gruzzoletto e diventare degli eroi, salvando la vita non soltanto alla vostra famiglia ma anche a tutti gli abitanti della Signoria, e forse, chissà, persino a quelli di tutta la Contea! L'altra, beh...» conclude, guardando in direzione di Nora e degli altri, «...l'altra, no».
Scende il silenzio. Laury tira su col naso, sforzandosi di non piangere. Guardo Grom, che attende con ansia una risposta. Ho capito cosa vuoi fare, spregevole carogna, ma non funzionerà: non riuscirai a portarceli via, neanche col ricatto. Non te lo permetteremo mai, neanche se dovessi ammazzarci tutt..
«Capo, abbiamo un problema!» La voce arriva da fuori, dev'essere uno dei due scagnozzi che erano rimasti fuori. Sentiamo i passi pesanti che si avvicinano, quindi lo vediamo attraversare la cornice della porta. Non è solo, purtroppo.
«Last!» Grida Mà, con la voce rotta dal dolore. «No, vi prego! Lui no! E' piccolo, ha bisogno di me!»
«Piccolo? A me pare anche più grandicello degli altri», commenta Grom grattandosi il mento. «Quanti anni hai, Last?» Non dirglielo! Menti!
«Quattordici e mezzo». Cazzo.
«Perfetto! Accomodati pure lì, insieme agli altri due... Stavamo giusto facendo un gioco». Mentre Last raggiunge Desiderio e Laury, Grom guarda il suo compare con aria interrogativa: «Beh? Qual è il problema?»
«Bernie è morto».
«Morto? Che dici?»
«Si, morto. Colpito da una freccia, al collo». Si porta la mano sotto al mento, indicandosi il pomo d'adamo. «Proprio qui».
Il resoconto prosegue, con Grom che incalza il suo sgherro con crescente preoccupazione e l'altro che spiega per sommi capi: non è opera di Last, ovviamente; lui è stato acciuffato dopo, lo ha beccato nei dintorni della casa mentre il ragazzo stava cercando di capire come aiutarci. L'arciere viene descritto come un probabile militare, che subito dopo aver abbattuto il loro sodale è scappato a cavallo insieme a un altro ragazzino. «Non credo si trattasse di uno di questi pezzenti», conclude: «il cavallo era di razza, un autentico stallone... Un Garkan degli Altipiani, credo». Il mio cuore manca un battito: Astea! Grazie agli Dèi è riuscita a scappare... Chi sarà il ragazzino? Freya? Ruben?
Grom riflette, visibilmente contrariato. «Va bene», dice poi, rivolgendosi al nuovo arrivato. «Prendi il mio cavallo e corri dietro a quello stronzo: portamelo qui, vivo o morto non mi interessa. E vedi di riportarmi anche il moccioso... Vivo».
Lo scherano non perde tempo: un attimo dopo è già fuori, mentre Grom torna a rivolgere l'attenzione a noi.
«Cambio di programma: dobbiamo velocizzare le cose. Voi tre giovanotti, li vedete questi fogli? C'è scritto che, se volete, potete venire con noi alla Rocca di Tramontana, dove vi addestreranno per farvi diventare dei soldati dotati di poteri straordinari, che vi renderanno molto più forti di me o di qualsiasi altro, nonché immuni al morbo dei Risvegliati. Se accettate, SPONTANEAMENTE e VOLONTARIAMENTE, non torceremo un capello ai vostri genitori, anzi riempiremo di soldi le loro tasche, e nessuno di voi ci vedrà più. Se vi rifiutate, beh... Lasciare il feudo in mano ai Risvegliati sarebbe davvero da vigliacchi. E a quel punto anche io potrei rifiutarmi di fare il bravo. Remon, Tuck, Portatemi la puttana».
Saga viene sollevata di peso e portata di fronte a Grom. E' ancora cosciente, nonostante il dolore e le ferite.
«Scommetto che non sei imparentata con nessuno di loro, vero? Si capisce dagli sguardi dei mocciosi». Lei non risponde, limitandosi a guardarlo negli occhi con la fierezza che la contraddistingue. Non ha paura di lui, penso. E' abituata a un tal genere di marrani. Ma è un errore, perché questo atteggiamento sprezzante lo farà infuriare ancora di più.
«E' mia nipote», intervengo. «Viveva oltre il Traunne, l'abbiamo presa con noi lo scorso autunno».
«Che stronzata», commenta Grom. «Non puoi mentire a casa del cazzaro».
«E' la verità!» insisto. «Fa parte della famiglia: ti prego, non farle del mal-»
Lo scagnozzo di nome Tuck mi assesta un colpo alla schiena che mi svuota i polmoni, togliendomi il fiato. «Hai sentito il capo? Basta stronzate». Gli altri due non tardano a unirsi al coro.
«E' veramente una vergogna».
«Non c'è davvero più morale in queste campagne».
Grom sghignazza, quindi fa un passo e si china in terra a raccogliere qualcosa, per poi tornare verso Saga. Il coltello di Scimus.
«Allora, dicevamo: se vi rifiutate - e siete liberi di farlo, sia chiaro - ecco qualche esempio di ciò che potrebbe succedere a quelli più grandicelli...»
FREYA
Il limitare del Bosco dei Mirtilli si palesa di fronte a noi, una sinistra macchia nera che nasconde l'orizzonte e che risulta ancora più scura del buio della sera che la sovrasta. Per la famiglia Trent, quel bosco è come un vecchio amico con cui hanno litigato da tempo e che adesso viene guardato con diffidenza: la Bestia dei Mirtilli, i Calabroni Grigi... Per me è soprattutto la dimora di Amelia e Dina, dell'eroismo di Aidrich Ramsey, del tragico sacrificio di Cynthia Haller e di tante altre avventure che popolano i racconti di Vodan.
Tuttavia, fino ad oggi non ci sono mai entrata davvero. E quella fila di alberi dai rami adunchi che incombe minacciosamente sul sentiero che stiamo percorrendo non sembra affatto suggestiva e stimolante come la mia immaginazione mi aveva indotta a pensare.
«Hai visto? Ci siamo quasi!» Arken fa di tutto per tenermi su di morale. «Una gita nel bosco, la notte di Eostar: in fondo è emozionante, no?»
«Assolutamente», confermo, stringendomi nelle spalle. Ho i brividi, e non è certo freddo. Che poi in fondo, a voler essere sinceri...
«Hai freddo? prendi questa!» dice avvicinandosi, togliendosi la mantella e mettendola sopra la mia. La accetto volentieri, ringraziando. Lo sguardo mi cade sugli oggetti che porta appesi alla cintura: un coltello da intaglio, simile a quello che tante volte ho visto in mano a suo padre, e la sua fionda. Due armi.
«Per ogni evenienza», risponde lui, quasi a giustificarsi.
Di lì a poco arriviamo alle propaggini del bosco.
«Perché gli alberi sono così spogli? Vodan diceva che erano sempreverdi...»
«Perché sono morti», risponde lui.
«Morti?»
«Stecchiti. Letteralmente».
Li guardo. Non sembrano affatto morti stecchiti! Mentre camminiamo, Arken mi spiega come muoiono gli alberi, e i cinque indizi che ti fanno capire che sono spirati. I buchi, l'angolo, la corteccia, gli insetti e i parassiti.
«Non proprio», risponde lui. «Quelli sono parassitoidi, nel senso che sono loro a uccidere l'ospite. Il parassita vero ha invece tutto l'interesse a tenerlo in salute, perché è grazie a lui che sopravvive».
«Come gli Innalzati, allora».
«Innalzati? Sarebbe?»
E' vero, penso: la storia degli Innalzati l'ho raccontata a Ruben, ma non a lui. Provvedo quindi a metterlo a parte delle informazioni che ci hanno raccontato Vodan, Kelly, John Stryker e altri soldati, felice di potergli insegnare anch'io qualcosa. Arken è molto più grande di me, di Ruben e degli altri: se lo volesse potrebbe andare alla Rocca e diventare lui stesso un soldato, seguendo le orme dei suoi cugini Tank e Hart. Ma non credo che sia quella la sua aspirazione: a lui piace disegnare, intagliare il legno e riparare le cose, come suo papà.
«Incredibile: e così Ghaan ne ha diversi, e noi soltanto uno».
«Una», mi affretto a precisare. «Annie. Tank e Hart la conoscono bene! La conoscevano... anche prima che...»
«Capisco». Mi chiede anche di William Deed ma lì ho poco da dirgli, visto che non ne so molto... A parte il disastro che ha combinato e gli sforzi del terzo plotone per rimettere le cose a posto, tutte cose note anche a lui.
Il bosco ci ha inghiottiti da un pò. Mi auguro che sappia dove stiamo andando, perché io mi sono sicuramente persa e non credo che saprei tornare. Non che sia una ipotesi, almeno per ora. Però...
«Ormai dovremmo averlo seminato», dice a un certo punto, guardandosi alle nostre spalle. «Tu vedi qualcosa?» Mentre osserva le cime degli alberi in lontananza, vedo che strizza gli occhi. E' una cosa che gli ho visto fare spesso, specie quando c'è poca luce. Ruben sostiene che si sia rovinato gli occhi a forza di intagliare il legno a lume di candela, ma lui dice che è un difetto che hanno quasi tutti nella sua famiglia, e che comunque gli basta socchiudere gli occhi per vederci benissimo. In effetti con la fionda è il più bravo di tutti.
Scuoto la testa: neanche io vedo nulla. In compenso è sceso un freddo pazzesco, neppure la doppia mantella riesce più a porvi rimedio. Anche quest'anno il Re dell'Inverno è duro a morire.
«Ti va se proviamo ad accendere un fuoco?» Mi propone, sfregandosi energicamente le mani. Vederlo con quella camicia leggera mi fa sentire male, e anche un pò in colpa.
«D'accordo: ma ne siamo capaci?»
«Secondo me sì».
Per prima cosa scegliamo un buon posto, una piccola radura tra gli alberi, quindi ci dividiamo i compiti: lui prende la resina e le pigne, io preparo i rametti e l'archetto. Quando è tutto pronto ci sediamo l'uno di fronte all'altra, nel sottobosco, mettendo insieme quello che abbiamo raccolto e preparato. Nel frattempo è praticamente scesa la notte, ma riesco comunque a vedere i suoi occhi azzurri che mi fissano, vicinissimi ai miei.
«Adesso ci dobbiamo fare un culo pazzesco, lo sai vero?»
«Eh...»
Non riesco a trattenere una risata, che subito coinvolge e trascina anche lui. Per un pò restiamo così, a ridere come due scemi, accovacciati tra le foglie e gli aghi di pino. Poi ci mettiamo al lavoro, dandoci il cambio all'archetto.
«Abbiamo qualche speranza di riuscirci, secondo te?» Chiedo dopo qualche minuto.
«Il figlio di un contadino e la figlia di una locandiera? Vorrei ben vedere!»
«No perché sai, a me non sembra che stia funzionando...»
«E' sempre così, all'inizio: abbi fede. E poi... ti ho fatto una promessa, no? Dobbiamo accendere... il nostro cero...»
Sorrido. «Ma non ce l'abbiamo mica, il cero...»
«Vorrà dire che sarà questo fuoco, il nostro cero. Ci stai?»
Annuisco, divertita e un pò lusingata. «Ci sto».
«Bene! Fatti dare il cambio, allora...» Mi toglie l'archetto dalle mani, quindi riprende a muoverlo su e giù, impegnandosi il doppio di prima. Le sue dita sono fredde, persino più delle mie... Se non altro tutta questa fatica sta avendo l'effetto di scaldarci un pò.
«Senti, ma... che ti hanno fatto?» Mi chiede a un certo punto.
«Chi?»
«Gli uomini da cui vi nascondete. A Dossler».
«Beh... Non molto a me, in realtà. Mi ero tagliata i capelli, tenevo un profilo basso. Sai com'è...» Sospiro.
«Certo». Silenzio. «Scusami», aggiunge dopo un pò. «Non avrei dovuto chiedertelo».
«...non fa niente». Silenzio. «Non chiederlo mai a Saga, però».
«Capisco».
Ancora silenzio, stavolta più lungo, rotto soltanto dal costante sfregamento del rametto contro l'esca di corteccia e muschi secchi. Poi, quando nessuno di noi se lo aspettava più, si verifica il miracolo.
«Aspetta... aspetta! Lo senti questo odore?»
«Credo di... si!»
«Continua, continua...»
«...eccola! La vedi?»
«La vedo! La vedo!»
Avvicino le mani a coppa e soffio delicatamente per tenerla viva, mentre lui continua a muovere l'archetto: pian piano la tenue scintilla prende coraggio, comincia a brillare sempre più forte, poi finalmente sboccia in uno splendente petalo di fuoco che rischiara la notte intorno a noi.
Passiamo i minuti successivi a raccogliere rami e rametti per ravvivare la fiamma, finché non la sentiamo crepitare.
«Il nostro cero!» esclamo, sfinita e soddisfatta.
«Te lo avevo promesso, no? Adesso però dobbiamo custodirlo...»
«Esatto! Finché non arriveranno gli altri».
Già, gli altri. Cosa sarà successo alla fattoria? Con un pò di fortuna Ruben è riuscito ad avvisare Saga, magari a farla uscire di soppiatto mentre Karel e gli altri distraevano i soldati. La mente mi si riempie di scenari positivi: immagino quegli uomini seduti a tavola, convinti ad assaggiare un pò della zuppa di Mà, mentre Saga li beffa calandosi dal retro con una corda fatta di lenzuoli annodati. Perché no, in fondo? Il nostro fuoco alla fine si è acceso, contro ogni previsione: magari è un buon segno.
A un tratto Arken sgrana gli occhi, voltandosi in direzione della boscaglia. «Hai sentito anche tu?»
Scuoto la testa. Lui si porta un dito alle labbra, facendomi cenno di fare silenzio, quindi si alza lentamente.
«MAGARI-SONO-LORO», mormoro con un filo di voce, enfatizzando i movimenti delle labbra.
«VADO-A-VEDERE», risponde lui, parlandomi allo stesso modo. «TU-RESTA-QUI». Muovendosi in punta di piedi raggiunge l'albero più vicino, poi prende la fionda dalla cintola e un sasso dalla tasca. Poi mi guarda negli occhi, sollevando nuovamente il dito verso l'alto: il gesto è identico a quello di prima, ma il significato è completamente diverso. Ne sta arrivando uno.
Pochi istanti dopo, un losco figuro fa la sua comparsa sul ciglio della radura. Il robusto mantello che lo avvolge non mi impedisce di riconoscerlo: è lo stesso bastardo che ci stava inseguendo prima. Come a fatto a trovarci? Abbiamo sbagliato ad accendere il fuoco? Arken si appiattisce contro l'albero, mentre il manigoldo muove lentamente un passo verso di me.
«Sei rimasta da sola? E' una fortuna che ti abbia trovata, allora».
«Chi... chi ti manda? Cosa vuoi da me?» gli chiedo, cercando di evitare di tradire con gli occhi la posizione di Arken. Devo guadagnare tempo.
«Nessuno. Voglio solo proporti... un accordo. Andiamo, ti riporto a casa».
Mi guardo intorno, cercando di capire quale sia la mossa migliore. Alla fine decido di alzarmi, assecondandolo. «Va bene», rispondo sommessamente, sollevando le mani verso di lui: «mi arrendo».
«Saggia decisione».
Fa un altro passo, con l'intento di afferrarmi il polso sinistro. Resto immobile, aspettando che la sua mano mi sfiori, poi scatto in avanti gettandomi addosso a lui. La differenza di forza, peso, dimensioni è persino più grande di quanto pensassi: non riesco a spostarlo neanche di un passo, mentre le sue braccia possenti si chiudono a tenaglia, cingendomi la schiena.
«Presa!» esclama con soddisfazione, flettendo le ginocchia per sollevarmi. In quel momento, le mie mani libere lo afferrano al volto, scostandogli il cappuccio del mantello: sotto ha un elmetto, proprio come immaginavo. Mi allungo su di lui, infilando le dita sotto al bordo metallico ai lati della nuca, quindi glielo calo sugli occhi. Lui reagisce scrollando la testa e sollevandomi in aria, non so se con l'intento di scagliarmi a terra o di stringermi fino a stritolarmi...
Non lo sapremo mai. Il sasso scagliato dalla fionda di Arken si schianta con violenza sul suo osso occipitale. Le braccia si alleggeriscono all'istante, consentendomi di sottrarmi alla presa e scivolare a terra. Un attimo dopo Arken gli piomba addosso da dietro, piantandogli il coltello nella nuca. Cadono insieme a terra, a un palmo dalle braci del nostro cero.
«Ti ammazzo, pezzo di merda: ti ammazzo!» Urla mentre continua a stringere il manico del coltello, come se lasciarlo significasse concedere al nostro aggressore il diritto di rialzarsi... Ma la ferita parla chiaro: non lo farà.
«Basta, Ark», gli dico, coprendo la sua mano con la mia. «E' andato. Ce l'hai fatta». Alla fine lo convinco a mollare la presa. Ci rialziamo lentamente, osservando il macabro spettacolo che abbiamo messo in scena. E' la prima volta che togliamo la vita a un altro essere umano, che vediamo qualcuno andarsene così.
«E' morto, vero?» La sua domanda è un misto indescrivibile di orrore, rimorso e sollievo. Riesco a comprenderlo soltanto perché è ciò che provo anch'io.
«Non ancora, ma morirà presto... ed è quello che merita. Se non lo avessi fatto, mi avrebbe uccisa. Hai fatto la cosa giusta. Mi hai salvata». La macchia rossa di sangue si allarga lentamente, tracimando dal collo fino a lambire il cerchio di pietre che delimita il fuoco.
«Ho protetto... ho custodito il nostro cero».
Apro la bocca per rispondergli, ma un improvviso rumore di rami che si spezzano mi fa trasalire, costringendoci a tornare alla realtà. Ce ne sono altri. Arken mi fa nuovamente cenno di fare silenzio, ma stavolta non facciamo in tempo a organizzarci. Un sibilo sinistro attraversa la radura, seguito da un rumore sordo. Arken solleva la gamba sinistra, portando alla luce un piccolo fiorellino grigio all'altezza della coscia che sta già cominciando a tingersi di rosso.
«Scappa!» fa in tempo a dirmi prima che il dolore lo investa, costringendolo a crollare a terra tra i gemiti. Ma anche se avessi intenzione di abbandonarlo, non potrei andare da nessuna parte: stavolta sono in quattro e arrivano da tutti gli angoli, chiudendoci ogni possibile via di fuga.
«Ma tu guarda che casino».
«Assurdo...»
«...Davvero increscioso».
«Non li sanno più educare, questi ragazzi».
Il primo che ha parlato, presumibilmente il loro capo, si avvicina al corpo esangue del nostro aggressore, mentre gli altri ci puntano le armi addosso. «Faccia a terra», esclama uno di loro. «Fate una mossa falsa e vi ammazzo entrambi».
«Come sta messo?» Domanda un altro.
«Non bene», risponde il capo con un sospiro. «Ma la lama del coltello è ridicola, credo che si sia spezzata: se ci sbrighiamo, forse se la caverà».
L'altro sputa a terra. «Se tira le cuoia, metto a verbale che mi doveva quattro bronzi. L'ho detto, eh?»
Quello che ci ha spinti a terra tira fuori delle corde. «Avete capito, mocciosi? Abbiamo fretta». Procede quindi a legarci le mani dietro la schiena, spingendoci la faccia contro la terra umida in una posizione che mi consente soltanto di vedere i loro piedi.
«Ma nel carretto ne entrano altri due? Non siamo già al completo?»
«Chiedi loro l'età, facciamo prima...»
«Ma non ce li hai gli occhi? Sono entrambi troppo grandi, non vanno bene».
«Il maschio di sicuro, lei non so...»
«Basta chiacchere, buoni a nulla: tiratemeli su».
I tre bestioni ci afferrano e ci rimettono in piedi, portandoci al cospetto del capo. Cosa posso fare? Scappare mi sembra impossibile. Sono esausta, stremata dalla lotta di poco fa. Arken ha una freccia conficcata nella gamba... E' finita, penso. Mi riporteranno a Dossler, dove diventerò la schiava di qualche parente di Creedon... o peggio. E' un bene che Saga non sia venuta, magari è riuscita a scappare altrove.
Il capo mi tira uno schiaffo, riportandomi alla realtà.
«Ti ho chiesto quanti anni hai!»
«N-non lo so», mormoro. «Ho smesso di contarli...» Cosa cambia quanti anni ho? Facciamola finita, mettimi in quel carretto e portami via.
«Vuoi fare la spiritosa? Molto bene, vediamo se riderai ancora adesso che sgozzo come un maiale quello stronzo dell'amico tuo».
«No! Non farlo, ti prego! Lui non c'entra niente..»
«Lo so benissimo, che non c'entra niente! Infatti ho chiesto a te, mica a lui...»
«Quattordici. Ho quattordici anni!»
«Sicura? Mi sembri più grandicella...» Allunga la mano verso... Non mi toccare!
Mi ritraggo con uno scatto. «Lo giuro. Sono nata il-»
Mi zittisce con un'altro schiaffo. «Non me ne frega un cazzo del giorno in cui sei nata: queste cose le racconterai alla Rocca di Tramontana. Avanti, in marcia! Qui abbiamo finito».
Alla Rocca di Tramontana? Che significa? Non capisco...
«E di quest'altro che ne facciamo? Sta perdendo molto sangue...» Mi volto a guardare Arken e subito realizzo quanto ha ragione: la gamba è un disastro, se non gli prestano subito i primi soccorsi morirà di sicuro.
«Vi prego, curatelo!» cado in ginocchio, implorando il capo con le lacrime agli occhi. «Vi seguirò senza fiatare, ma vi imploro...»
«Scherzi? Quello stronzetto ha praticamente ammazzato uno dei nostri! E poi comunque ormai è spacciato, non lo vedi?»
«Non è detto! Se fermate il sangue, potrebbe... Vi supplico!»
Terzo schiaffo. «Falla finita! Dobbiamo andare. E spegnete quel cazzo di falò». Poi mi afferra per l'avambraccio e mi trascina via: lontano da lui, dal fuoco, dall'abitato di Trent. Mi sforzo di non distogliere gli occhi da Arken, i nostri sguardi si incontrano per l'ultima volta. Ha gli occhi vitrei, il dolore dev'essere atroce. Mi sussurra qualcosa, enfatizzando i movimenti delle labbra.
«.....-V-I-V-I»
Scuoto la testa disperatamente. Non ho capito!
«S-O-P-R-A-V-V-I-V-I»
Annuisco. Provo a comunicargli qualcosa anch'io, resistendo con tutte le mie forze agli inesorabili strattonamenti del bestione. «A-N-C-H-E T-»
E poi il fuoco, il nostro cero, si spegne del tutto.
«... che è un modo sbagliato di pronunciare Ostara!»
«Eostar!»
«Ostara!»
«Eostar!»
«Ostara!»
«Eostaaaaaar!»
I toni del dibattito si accendono fino a catturare la mia attenzione, distogliendomi dal leggero ondeggiare dei panni ancora da raccogliere.
"Freya, guarda che ha ragione lui", esclamo mentre mi accingo ad arpionare i lembi di una tovaglia particolarmente grande: "qui la chiamano Eostar". Una breve ed energica scrollata e la ripongo nella cesta piegata in quattro, ripetendo un gesto che ho imparato a forza di osservare mamma e poi perfezionato nel corso dei tanti anni che sono passati.
"... perché nessuno ha mai detto loro che si chiama Ostara!" risponde lei, alzando un dito sopra la testa e poi volgendolo verso di sé. "Ma adesso possono contare su di NOI, che possiamo finalmente rivelare la verità!" Così dicendo si volta nuovamente verso il suo interlocutore, sfoggiando la tipica espressione di chi la sa lunga, molto più lunga di te.
Ruben la guarda in cagnesco, quindi gira il collo di lato, incrociando le braccia in segno di stizza e guardando fisso di fronte a sé. "E allora non ti presto la MIA paglia... E potrai dire addio al tuo Kuklalàr".
"Oh no!", esclama Freya fingendo disperazione e infilandosi le mani nei capelli, "non puoi farmi questo: che ne sarà del mio povero Kuklalàr!"
Ruben cerca di restare serio, evitando di guardare Freya negli occhi. Restano così per qualche istante, poi i loro sguardi tornano lentamente a incrociarsi: un attimo dopo scoppiano entrambi a ridere, ed io con loro.
E' già passato più di un anno, ma ancora tutto questo mi sembra incredibile: a dispetto di tutti i calci che il destino ha avuto la malacreanza di assestarci siamo ancora qui, insieme e serene, circondate da persone oneste e generose. E poco importa se, almeno inizialmente, la loro intenzione di accoglierci è stata corroborata dalla promessa di una cospicua parte della diaria di Vodan: con il passare dei mesi siamo diventate parte integrante di questa comunità, che oggi si regge anche grazie al nostro piccolo contributo.
Già, Vodan... Dove stai? E' più un mese che non ti fai vivo. L'ultima volta mi avevi promesso che saresti tornato prima di Ostara. Stai aspettando l'ultimo minuto, così da fare la tua solita entrata a effetto? Magari vestito da Re dell'Inverno... Sarebbe una bellissima sorpresa, Freya ne sarebbe entusiasta. La osservo mentre corre con Ruben verso il vecchio deposito, dove sceglieranno con cura i sacchi di paglia che, nel giro di poche ore, diventeranno dei bellissimi Kuklalàr. Sono proprio carini, insieme. Lui però è ancora un bambino, lei invece ultimamente è cresciuta tantissimo. Hai visto com'è diventata grande? Ha già quattordici anni... Wow. E' già praticamente una donna.
Poi ripenso a quando l'avevo io, quell'età, e... ehm... no, beh, in fondo lei è ancora una bambina. Grazie al cielo. Non c'è fretta. Nessuna fretta davvero.
RUBEN
«Chi arriva ultimo cambia le lenzuola di Laury... per un mese!» Urlo mentre la sorpasso. Vai così! Sono partito dopo, eppure so già che arriverò prima: anche se sono (di poco!) più piccolo, resto comunque più veloce di lei. Del resto lei è una ragazza, è normal...
«Chi arriva ultimo DORME con le lenzuola di Laury... per un mese!» risponde lei, recuperando terreno fino ad affiancarmi. Maledetta! Come fa ad andare così veloce? Non importa, basta correre ancora più veloce. Col cavolo che ci dormo, nelle lenzuola pisciate di Laury!
Torno avanti, ma lei non ci vuole stare: tenta di superarmi tagliando per una piccola macchia di arbusti, che supera con un salto. Che peste! Quando atterra, i capelli le ricadono sulle spalle come spighe di grano. Li ha sempre avuti così lunghi? Che ti frega dei suoi capelli, Rub! Mancano trenta metri al vecchio deposito... la devi superare adesso!
Con enorme difficoltà la raggiungo: percorriamo l'ultimo tratto affiancati, con le spalle che quasi si toccano. Sento il suo respiro affannato: sono avanti? Sono avanti!
Poi, d'improvviso, la tragedia, il disastro, la catastrofe assoluta: metto il piede nel posto sbagliato, perdo l'equilibrio e capitombolo tra le foglie bagnate. Sento la terra umida nel naso, sotto le unghie, dentro ai calzoni, ovunque. Che tu sia maledetta, stupida e nodosa radice di faggio, proprio lì tra i piedi miei dovevi andare a crescere. La caduta fa un male cane, ma non è niente rispetto al dolore delle risate che stanno per ricoprirmi. Eccole, le sento... E' la fine, l'inferno di ghiaccio, la vergogna totale: voglio morire.
«Oh Dèi! Come stai? Tutto bene?»
Se non altro, Freya non ride: anzi, lei è... china su di me, intenta a guardarmi con aria preoccupata. Le risate provengono da quelle zucche vuote dei miei cugini, che spuntano dalla porta del vecchio deposito con il consueto ghigno intagliato al posto della bocca. E dire che è Eostar, mica Samhain.
«...Che figura di merda!» Sentenzia Arken, mettendosi una mano davanti agli occhi.
«Speriamo almeno che non si sia cacato sotto!" gli fa eco Last, mimando il gesto di tenersi la pancia per le troppe risate. Spero solo che la terra che mi è entrata nelle mutande non si veda troppo, altrimenti vaglielo a spiegare... «Le mie condolenze, Frey: non dev'essere facile badare a quell'impiastro tutto il giorno...».
«Si dice condoglianze", risponde lei con aria scocciata, senza voltarsi e continuando a guardare me. «E comunque, il mio nome non è Frey».
Grosso errore, imbecille: Frey è, anzi era, il fratello gemello di Freya... E lei non lo sopporta, quando la chiamano con il suo nome. La guardo e vorrei dirglielo, che io mi ricordo di questa cosa e non lo farei mai questo errore, mica come quell'idiota di Last... Ma se glielo dicessi adesso farei la figura del cretino, no?
«Come stai?» mi ripete, ignorando i due deficienti sghignazzanti. «Ti fa male qualcosa?»
«No, no... tutto bene». In realtà mi fa malissimo il ginocchio, ma non posso fare la femminuccia proprio adesso. Rifiuto orgogliosamente la sua mano gentile e mi tiro su da solo, fingendo di ignorare lo spiedo arroventato che mi trapassa l'articolazione. «Visto? Non è niente! Ti ha detto fortuna, sai... senza quel colpo di sfortuna avrei vinto io!»
Le mie parole vengono seguite dagli applausi derisori dei due figli più scemi di Scimus Trent. Freya li ignora e mi sorride. Anche lei non li sopporta, ne sono certo. A una come lei non possono piacere persone così stupide, egoiste e cattive. E pensare che un tempo li trovavo simpatici...
«Scommetto che siete venuti a prendere la paglia», esclama Arken. «Se volete possiamo prestarvi la nostra carriola, così la portiamo più comodamente e senza faticare».
Scuoto la testa: «grazie ma no, preferiamo portarcela da soli».
Così dicendo arranco verso il deposito, ignorando il dolore al ginocchio. Lancio un'occhiata di sufficienza al trabiccolo su cui i miei cugini hanno caricato i loro sacchi e mi accingo a riempire i nostri due, uno per me e uno per Freya fingendo che vada tutto bene, che il dolore allucinante che dal ginocchio si sta propagando verso ovunque non esista. Lei si offre di aiutarmi, ma non serve: faccio da solo, è un lavoro da uomini. I due scimus mi osservano in silenzio, tra il rispettoso e il divertito: mi aspettano al varco, quando i sacchi saranno pieni e mi toccherà sollevarli. Ecco, ci siamo. Uno, due, tre... Fatto! Dai, non fa poi così male. Sento il peso dei loro sguardi mentre mi trascino fuori dal deposito. E' così evidente che sto soffrendo come un cane?
«Usiamo la carriola, dai», sentenzia Freya con un tono che non ammette repliche: «grazie», aggiunge poi rivolgendosi ad Arken, che accoglie la nostra resa con un sorriso piacione.
«Figurati! Mi fa piacere aiutarvi. A proposito, volevo chiederti una cosa... Hai già deciso con chi accenderai il cero, stanotte?»
No! maledetto: volevo chiederglielo io! Sono giorni che sto aspettando il momento giusto, e alla fine mi ero deciso a farlo oggi... stasera, per la precisione. Avrei voluto farlo mentre preparavamo i Kuklalàr. Tra poco, cioè. E adesso lui...
Freya scuote la testa. «A dire il vero, non ancora...»
«Capisco. E dimmi, ti andrebbe di... insomma, di accenderlo con me?»
Lo odio. Vorrei che morisse. Vorrei vedere il suo fegato pascolato dai vermi. Freya esita, incerta, poi mi guarda con aria interrogativa.
«In realtà... non so se...»
«Ah», la interrompe Arken, «te lo ha già chiesto Ruben? E' così, Rub? Ma quindi... non è che per caso state ins...»
«MA COSA VAI BLATERANDO?» Le parole mi escono da sole. «Assolutamente no! Ti pare?» OK, ora sono io a voler morire. Non potevo rompermi la testa contro quella radice? Vi prego, spiriti della foresta, ghermitemi ora e sprofondatemi nel terreno, adesso, in questo istante.
«Meno male, è un sollievo! Allora, Freya... che dici? Va bene?»
Lei mi guarda, come stupita dalla mia reazione. «Non so, credo... va bene».
«Davvero? E' una promessa?».
«...Ok».
Bleah! Solo a pensare all'idea di vedere Freya che accende il cero insieme ad Arken mi viene da vomitare. Sai che c'è? Stanotte vado a letto presto, chi se ne frega di Eostar. Anzi, col cavolo: aspetto che arrivi il momento di fare il Kuklalàr, quando finalmente saremo io e lei da soli, e allora le dirò che... che... che quell' "ok" ad Arken non mi ha fatto per niente piacere, ecco! Ma proprio per niente! Ma ti pare che dici "ok" a uno così? E poi, fai il Kuklalàr con me e accendi il cero con lui? Valle a capire le ragazze, valle a capire!
«Rub, ti muovi? O ti serve aiuto?»
«Non serve, ce la faccio!»
Carico a malincuore i due sacchi sulla carriola, dubitando di poter fare anche solo un altro passo aggravato da quel peso. Ci mettiamo a risalire per la strada che ci ha condotti qui, superando ben presto l'odiosa radice che ha finito per rovinarmi la giornata: vorrei prenderla a calci, se non fosse che con la sfortuna che ho oggi finirei di certo per rompermi un piede.
Poi Last punta un dito di fronte a noi: verso l'orizzonte, in direzione dell'abitato di Esmor. «Scusate, ma... chi sono quelli?»
«Mmm... Non lo so», risponde Arken, strizzando gli occhi: da lontano non ci vede tanto bene.
«Soldati», mormora Freya. «Dev'essere... Si, dev'essere Vodan!» E poi fa per correre verso quel gruppo di uomini, con il volto che le si illumina di un rinnovato sorriso.
«Ferma!» grido, afferrandole il polso per trattenerla. Il movimento mi costringe a caricare il peso sul ginocchio malconcio, che reagisce lanciandomi uno spasmo lancinante che mi lascia senza fiato. La mano si apre e Freya si divincola facilmente, continuando la sua corsa verso quello che crede sia il plotone di suo fratello.
«Freya! Fermati!» Le urlo nuovamente, invano. «Non hanno...»
«Lasciala andare, no?» mi interrompe Last, come sempre l'ultimo a capire: «che problema c'è?»
"Non hanno lo stendardo», mi fa eco Arken. «Quelli non sono soldati di Uryen».
KAREL
«Ragazzi, abbiamo visite!»
Il tono allarmato che leggo nella voce di Mà non promette niente di buono: vedi se mi non tocca alzarmi di nuovo, dopo una giornata intera passata a spargere semi.
«E allora ditelo che non volete farmele fare, queste candele», sbotta Scimus, sbattendo sul tavolo il coltello con cui era intento a intagliare l'ennesimo cero per la notte di Eostar.
«Ma lo sai che sta venendo davvero niente male?» Esclama Nora, gli occhi fissi sul lungo moccolo giallastro. «Che cos'è, una volpe?»
«Quasi... un lupo! Vedi le orecchie? La volpe le ha più grandi...»
«...Vero! E come mai un lupo?»
«Mi diceva Saga che era un simbolo di Harkel... vero, Saga?»
«Saga è uscita a ritirare il bucato mezz'ora fa», gli risponde Mà. «Alzalo quel collo, ogni tanto!»
«Basta candele», taglio corto, mentre costringo le mie stanche membra a sollevarsi dalla poltrona. «Vediamo chi viene a rompere le scatole». Poi vedo che Mà sta prendendo la rancogna da sopra al camino e capisco che si tratta di soldati.
La rancogna è un ramo di olivo insolitamente lungo e resistente che si tramanda nella mia famiglia da generazioni: Scimus è solito dire ai nostri ospiti che risale all'età dei Khan, ma in realtà mi sembra di ricordare che lo abbia raccolto nostro nonno nei dintorni di Mar. Fatto sta che, da quando i Nordri hanno cominciato a farci visita, è diventato il compagno preferito di Mà.
Butto un'occhio fuori dalla finestra: «sono in sette, tutti a cavallo».
«Saranno i tuoi ragazzi, Gomar», commenta Scimus. «Lo dicevo io, che non si sarebbero persi la minestra di legumi e tartufo di Mà».
«Non credo», risponde Gomar, alzandosi a sua volta. «Tank diceva che li avrebbero mandati a Dossler...»
«E avranno fatto un cambio, sapendo della minestra: io ci avrei provato».
«Non sono i ragazzi», confermo poco dopo aver aperto la porta. «Vado a vedere cosa vogliono. Gomar, dai un'occhio qui: se vedi che butta male, tirate fuori i pezzi». I pezzi sarebbero la mia mazza, la cucchiara di Scimus e la spada che s'è tenuto Gomar dai tempi in cui era soldato: le uniche armi che abbiamo. A parte la rancogna di Mà, s'intende. Ironicamente, l'unica che abbia mai fatto il morto è la cucchiara.
Mà mi accompagna fuori, trascinando la rancogna. «Che sia Vodan con gli amici suoi? E' un mese che non si fa vivo, quel filibustiere! Sarebbe anche ora che portasse un pò dei soldi che ci deve...»
Scuoto la testa. «Non è lui: e neanche Ivan. Non mi sembra di averli mai visti, questi». E non è una cosa buona, aggiungo tra me e me mentre accelero il passo. Come anche il fatto che non vedo nessuno stendardo.
Mà digrigna i denti: «non saranno mica...»
«No, non sono neanche Nordri. Saranno viandanti che cercano cibo, o forse un posto in cui passare la notte...»
«...o magari soldi. Ma vedo che hanno anche un carretto con le sbarre, o sbaglio? Come quello che portava in giro Seth Lakeman, te lo ricordi?».
«Già. E non mi piace per niente. Vado a parlarci, tu torna in casa e fai salire le ragazze».
«D'accordo».
«I marmocchi dove stanno?»
«I miei giravano dalle parti del vecchio deposito, stavano prendendo i sacchi...»
Annuisco. «Recuperali e falli salire tutti su: e dì Gomar e Scimus di preparare i pezzi».
«Va bene. Ma tu stai in campana, eh?».
«Tranquilla».
«Promesso?».
«Promesso».
In quel momento mi viene incontro Saga, con la cesta piena di panni ancora tra le braccia. «Li conosci?» mi chiede con aria interrogativa e un pò preoccupata. Anche lei non sembra averli mai visti, il che potrebbe essere un bene: magari non sono uomini dei Creedon. «Mai visti», le rispondo. «Rientra a casa e vai su con gli altri, qui me la vedo io».
«Freya è tornata?», mi chiede con aria preoccupata, guardando in direzione del vecchio deposito.
«Non lo so: vedi se sta in casa, altrimenti falla cercare da Eliane: tu è meglio che non ti fai vedere, casomai fossero gli uomini di chi-sai-tu». Saga fa cenno di sì con la testa, quindi affretta il passo verso casa.
La cosa peggiore quando sei il capo famiglia è che devi sempre prendere la decisione giusta. A me questa cosa riesce bene con le bestie e le sementi, ma con le persone è un'altro paio di braghe. Stringo i pugni per farmi coraggio e, solo in quel momento, mi accorgo di avere in mano il coltellaccio di Scimus, con la punta della lama ancora sporca di cera. Devo averlo raccolto d'istinto, quando mi sono alzato: ormai il mio cervello si è abituato a prevedere l'arrivo dei casini. Lo nascondo sotto la camicia e mi avvicino ai sette, alzando la mano in segno di saluto: vediamo come butta.
FREYA
Le gambe si muovono da sole, senza sforzo, del tutto immemori della corsa a perdifiato di pochi minuti fa. Ho sperato tanto di poter passare Ostara insieme a Saga e a Vodan! Fosse mai che, per una volta, gli Dèi avessero deciso di farmi contenta? Sarebbe quasi come ai vecchi tempi, a Nuova Lag...
Uno dei soldati mi nota, mi indica. Di lì a poco si girano tutti verso di me. Sono in sette. Nessuno di loro sembra essere Vodan, e non vedo neanche Kelly e John. Di fronte a loro, sul sentiero, ci sono Karel Trent e sua moglie Nora che li stanno raggiungendo a grandi passi. Anche loro mi vedono, e subito mi fanno cenno di andare verso casa. Hanno un'espressione preoccupata. Il soldato che mi ha vista scende da cavallo e comincia ad avanzare nella mia direzione. Cosa sta succedendo?
«...Non hanno lo stendardo. Quelli non sono soldati di Uryen».
La sentenza di Arken mi investe come una folata di vento gelido. Oh no, penso tra me e me, mentre la memoria mi scava nella testa facendo emergere i ricordi di oltre un anno fa. Gli scagnozzi dei Creedon: ci hanno trovate!
Torno rapidamente sui miei passi, volgendo le spalle al falso soldato che, nel frattempo, ha già cominciato a scendere verso di noi: «Dobbiamo scappare!» Poi guardo Ruben, e mi ricordo del suo ginocchio: fa finta di niente, ma si capisce che può a malapena camminare. «Come facciamo?»
«Ci penso io», esclama Arken, ribaltando la carriola con un gesto deciso. I quattro sacchi di paglia rotolano in terra con un rumore sordo, dando vita a una scena simile alle pratiche di pulizia che tante volte ho visto sbrigare alle guardie dell'Ongelkamp di Dossler quando giungeva l'ora di disfarsi dei corpi di chi non ce l'aveva fatta. Neanche i nostri Kuklalàr ce la faranno, penso con malinconia. Non oggi, almeno.
«Forza Ruben, sali!».
Ruben si accovaccia nel cassone senza esitare: un istante dopo Arken volge la punta della carriola verso il vecchio deposito e prende a spingerla con le sue braccia nodose lungo il sentiero fitto di radici, con noi dietro di lui. La ruota sobbalza più volte, restituendo a Ruben contraccolpi dolorosi, ma lui non fiata: nessuno di noi lo fa, mentre corriamo a perdifiato lungo i sentieri che tante volte abbiamo battuto con ben altro spirito, immersi nei nostri giochi. E' già ora di andare? E' già finito anche questo posto? Il solo pensiero mi riempie gli occhi di lacrime. Non sono pronta per andare via, non ancora. Devo avvertire Saga, dobbiamo...
«Dove la nascondiamo?» chiede Arken non appena la sagoma del vecchio deposito ci nasconde agli occhi dello sgherro in avvicinamento.
Lo sanno, penso. Lo hanno capito anche loro che quelli sono venuti per me.
«Nel deposito sarebbe un suicidio», risponde Ruben: «se lo stronzo decide di guardarci dentro la becca di sicuro».
«Ma se torniamo alle case?» domanda Last.
«E cosa risolvi, idiota?», lo rimbrotta Arken: «è proprio quello il primo posto dove andranno a cercarla i soldati».
Ruben si guarda intorno. «Se tagliate per il campo di ravanelli potete arrivare al boschetto...»
«Si, questa può funzionare», annuisce Arken, che poi si volta verso di me. «Da lì puoi raggiungere il bosco dei mirtilli, e a quel punto... a quel punto non ti trovano più».
«Non VI trovano più», precisa Ruben, scendendo dalla carriola. «Devi andare con lei».
Arken lo guarda con aria interrogativa. «Perché?»
«Perché non può andare nel bosco, da sola, di sera, con i soldati in giro: te lo devo spiegare?»
«Vabbè. E invece voi? Che fate?»
«Noi andiamo ad avvisare Saga», continua Ruben, facendo cenno a Last di seguirlo. «Ti ricordo che quelli stanno cercando anche lei». E ci assicuriamo anche che stiano tutti bene, penso con un filo di ansia.
Arken annuisce. «E col ginocchio, come fai?»
«Non dobbiamo scappare», risponde Ruben, scrollando le spalle: «non stanno cercando noi. E poi mi sta già passando». Non si direbbe, a giudicare da come appoggia il peso. Sospiro.
«Ma siete sicuri?» Interviene Last: «e se invece...»
«Stà zitto, idiota», lo interrompe Arken. «Va bene, Rub: ho capito». Quindi si gira nella mia direzione. «Forza, principessa: muoviamoci!»
«Mi raccomando, dì a Saga che la aspettiamo nel bosco», mi affretto a dire a Ruben prima di separarci. Da lì, una volta insieme, potremo raggiungere la casa di Dina, penso tra me e me, cercando di farmi coraggio. Con un pò di fortuna, ce la caveremo anche questa volta. Abbiamo visto e vissuto di peggio.
«Ricevuto», mi risponde Ruben con un cenno di intesa.
«Stai attento, mi raccomando. E se vedi che butta male... raggiungici anche tu».