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Solice Kenson
Cronache della Campagna di Caen
Solice Kenson
"Voi avete coraggio e siete molto convincente: ma non appena sarete chiamata a combattere, al primo combattimento che possa realmente definirsi tale, voi morirete. E non parlo di scontri confusi o ingarbugliati, dove nessuno capisce fino in fondo quello che sta facendo o magari ha meno voglia di uccidervi che di portare la pelle a casa. Parlo di uno scontro vero, in cui affronterete una persona con le vostre sole forze. Beh, è giunto il momento che qualcuno che vi vuole bene vi dica che queste forze non basteranno proprio contro nessuno".
creato il: 20/05/2005   messaggi totali: 91   commenti totali: 32
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7 giugno 517
Venerdì 18 Maggio 2007

Convalescenza

I giorni passano lentamente qui a palazzo, scanditi dal rumore della porta della mia stanza che si apre e si chiude diverse volte al giorno. Karl e Ryan vengono a trovarmi molto spesso; nonostante cerchino in tutti i modi di farmi sorridere leggo ancora nei loro volti qualche traccia di paura: mi ricoprono di attenzioni, chiedendo quotidianamente a me e al sacerdote che mi ha preso in cura ogni sorta di informazioni riguardanti il mio recupero e tutte le possibili conseguenze presenti e future della caduta.

Da parte mia, cerco di rassicurarli come posso: il dolore al braccio si affievolisce di giorno in giorno e quello alla testa si è ridotto quanto basta per concedermi di dormire con continuità. I rigurgiti improvvisi che inizialmente avevano preoccupato un pò tutti si sono ridotti fino a svanire, e il sacerdote è ottimista sul mio recupero pressoché completo; a quanto sembra, la frattura che mi sono procurata mi impedirà l'utilizzo del braccio per un paio di mesi, e ce ne vorranno quasi altrettanti per un recupero completo. Era una notizia che mi aspettavo, eppure non ho potuto impedirmi di accoglierla con lacrime di pianto: indipendentemente da ogni mio proposito di migliorare la mia tecnica, gli Dei avevano deciso che la mia spada avrebbe continuato ad essere un peso per i miei compagni. Ma mi sono fatta forza pensando al motivo per cui Kayah mi aveva protetto: se ero ancora in vita era merito suo e dello spirito di Abel, la cui luce mi aveva sottratto alle tenebre. Mai come ora avrei dovuto trattenere la disperazione e concentrarmi sul mio compito, impegnandomi a tornare presto in grado di muovermi e di agire.

In questi giorni successivi al mio risveglio lascio spesso il mio sguardo indugiare sui pochi oggetti che circondano il letto entro cui mi trovo. Non sono bianche ma rosse le rose lasciate da sir Steven sulla soglia della porta della mia camera il giorno prima di partire: in mezzo a loro, come un fiocco di neve, risalta quella che si trovava tra i miei capelli la notte della caduta. Yera mi aveva raccontato di come fosse stato proprio sir Steven a riportarmi al castello: evidentemente mi aveva seguita, poco convinto dell'opportunità della mia passeggiata notturna. Il suo spirito d'iniziativa gli era comunque costato piuttosto caro: stando al racconto di Yera, mio padre era andato su tutte le furie sapendo che il cavaliere di Anthien mi aveva spostato dopo una simile caduta, e il sacerdote di Reyks aveva confermato il rischio e l'avventatezza di quella decisione. "In un solo giorno vi ha regalato una rosa, vi ha inseguita, vi ha vista volare di sotto, vi ha riportata in braccio a palazzo e in tutto questo ha rischiato inavvertitamente di uccidervi! Non è incredibilmente romantico?" aveva commentato Yera al termine del racconto. Era stata lei a conservare la rosa bianca che si trovava tra i miei capelli, e sempre lei l'aveva posta al centro del mazzo: una rosa bianca intrappolata tra molte altre rose. Gli altri oggetti erano un rosario di Kayah, lasciato sempre sulla porta da Peter Gremaud il giorno della sua partenza, e la carta del fante di quadri, che mi osservava dal comodino sul quale era sempre stata, quasi prendendosi gioco di me: i sogni avevano smesso di parlarmi, da quel momento sentivo che avrei dovuto farcela da sola.

Dal giorno in cui mi sono svegliata, mio padre è venuto a trovarmi tre volte. La prima la ricordo appena, confusa com'ero: ricordo di aver provato a parlargli, ma la testa mi doleva al punto da non riuscire a concentrarmi sul senso delle mie parole. Avevo provato a spiegargli i dettagli della mia caduta, ma lui aveva ben presto scosso la testa: "Devi pensare soltanto a riposare", mi aveva detto, interrompendo il disordinato fiume delle mie parole. "Non voglio che tu faccia altro".

La seconda volta avvenne alcuni giorni dopo: oltre a lui c'erano anche sir Thomas, Malaki e Jen, i tre cavalieri di Beid a cui maggiormente mi sentivo legata. La reazione di Malaki quasi mi commosse: era così sollevato alla vista dei miei occhi aperti... Sir Thomas e Jen si mantennero sull'attenti; la loro espressione mi era sufficiente per provare nei loro confronti un profondo senso di gratitudine. Tanto mio padre quanto sir Thomas, quest'ultimo ancora duramente provato dalla ferita alla spalla sostenuta alla vigilia del matrimonio, mi fecero numerose domande sul mio aggressore; alcune di esse mi sorpresero, al punto da farmi venire il dubbio che avessero già catturato un possibile sospettato. Grande fu il mio sgomento quando, manifestando tale interrogativo, mi sentii rispondere che con tutta probabilità doveva essersi trattato del prigioniero di Valamer.

"Non... non ha senso", dissi balbettando. "Non può essere stato lui". Nel giro di pochi istanti ricevetti una serie di spiegazioni a suffragio di tale tesi: Netjerikhet era fuggito da Valamer in circostanze misteriose la stessa notte della mia caduta, per poi essere ritrovato a poca distanza dal castello, in un lago di sangue; alcune guardie del castello erano rimaste uccise, probabilmente - stando a quanto dicevano - da lui stesso o dagli individui responsabili della sua liberazione; inoltre, una o due guardie civiche sostenevano di aver visto un individuo avvolto in un mantello, di altezza e corporatura corrispondente alla sua, nei pressi della torre delle Termiti: una corporatura in tutto e per tutto simile a quella da me descritta pochi istanti prima nel tentativo di visualizzare la stazza del mio aggressore.

Man mano che sentivo quelle gravi parole, il mio cuore si stringeva: sebbene le prove non fossero sufficienti per avere la certezza assoluta non avrebbero fermato la decisione che mio padre avrebbe con tutta probabilità preso. Il prigioniero di Valamer era spacciato.

Nei giorni successivi ho avuto modo di parlare molto con Yera: senza scendere nei dettagli le ho confidato parte delle mie preoccupazioni e tutti i dubbi che avevo sulla colpevolezza del mio presunto assalitore. Mi ci volle un pò per convincerla: "voi siete ancora intontita dalla botta che avete preso, milady: quello vi vuole morto e voi lo volete salvare", mi ripeteva giorno dopo giorno, scuotendo la testa. Tuttavia, alla fine la fiducia che nutriva per me la portò a credere alle mie parole non appena fu completamente persuasa che non erano le conseguenze della caduta a farmi parlare in quel modo. Una analoga sorte la ebbi con mio fratello Ryan: "per quello che vale ti credo", disse al termine di una lunga conversazione, "ma non penso che nostro padre sentirà ragioni: in questi giorni sta succedendo qualcosa di grosso, e in quanto Marchese ha il dovere di fare le scelte necessarie per il bene della marca".

Il senso delle sue parole mi venne spiegato nel corso dei giorni successivi: a seguito dei giorni del matrimonio, reparti scelti dell'esercito di Keib erano stati avvistati in territorio di Beid. Sir Thomas e altri soldati avevano provveduto a scortare le ultime carovane di invitati fino a Chalard, e sebbene non avessero subito attacchi diretti avevano avuto conferma di movimenti misteriosi e apparentemente ostili. A quanto sembrava i nostri "cugini" avevano qualcosa in mente, e questo significava l'impossibilità per mio padre di commettere qualsivoglia errore nei confronti della sua popolazione. Quelle notizie erano tanto gravi quanto paradossali: era stato proprio Netjerikhet a metterci in guardia di quella minaccia, la cui conferma gli sarebbe di lì a poco costata la vita. Quante e quali altre informazioni sarebbero morte con lui? Su Beid, su Keib, su Rosalie...

"il 15 giugno", fu la frase che mio padre pronunciò guardando fuori dalla mia finestra, nel corso della sua terza visita. A lungo lo implorai di recedere da quella data, che di fatto mi impediva di dimostrare con le mie forze la sua innocenza: come avrei potuto inseguire la verità in così poco tempo? Stando al sacerdote presto avrei potuto alzarmi, ma a quel punto non avrei avuto che una manciata di giorni prima dell'esecuzione. Inutilmente lo implorai di darmi ancora tempo: gli chiesi di non macchiarsi le mani di una scelta che non poteva ancora definirsi certa, e che avrebbe potuto soffocare la verità anziché conseguirne gli scopi, ma si dimostrò inamovibile; il suo ruolo di padre e quello di Marchese lo spingevano verso una condotta univoca e coerente che non lasciava alcuna speranza al prigioniero. Rendendomi conto dell'impossibilità di perseguire lo scopo come figlia, fu come Paladina che gli rivolsi l'ultima preghiera: lo implorai di rivolgere il suo cuore agli Dei, accettando il loro consiglio e cogliendo con saggezza ogni possibile segno che i nostri padri avrebbero inviato nel tentativo di preservare dall'oblio la luce della verità. Un barlume di speranza si accese nel mio cuore quando, subito prima di andarsene, acconsentì a questa mia estrema supplica.

Tre giorni sono passati da quella visita: il sacerdote di Reyks mi ha proibito di alzarmi fino al 12, ma non posso ignorare l'urgenza che sento all'interno del mio cuore, il compito a cui so di essere chiamata in questi giorni fondamentali. Ho perso l'uso del braccio, ma non è lì che risiedono le mie capacità: da domani chiederò a Yera e alle mie gambe di sorreggermi fino alla porta del palazzo e poi verso la torre delle Termiti: è lì, nel luogo in cui Kayah e Abel mi hanno salvato dalla morte, che avrà inizio la mia ricerca per riaccendere la fiaccola della verità. Lo devo a Netjerikhet, che si è fidato della mia intelligenza rischiando la vita; lo devo agli amici di Caen; lo devo ad Abel e alla sua stella che mi illumina e protegge nella notte; lo devo a mio padre, che non merita di sacrificare la sua integrità alla ragion di stato; e più di ogni altra cosa, lo devo a Rosalie: se c'è qualcuno che può rivelarmi qualcosa sulla sua ubicazione o sul suo destino, quello è il prigioniero di Valamer, un uomo che ha messo la sua vita nelle mie mani recandomi un unico, eloquente messaggio: una rosa bianca.

Che gli Dei mi aiutino a farlo uscire per la seconda volta da quella prigione, stavolta da uomo libero.


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27 maggio 517
Mercoledì 9 Maggio 2007

9 giorni


...Una catena d'oro con un anello che scompare in un buco del muro. Una stanza buia, con le pareti ricoperte di sangue. Sangue rosso, sangue recente, i cui schizzi ricoprono le pareti incrostate di sangue scuro, quasi nero. Sangue di anni, forse decenni. Sangue in polvere, polvere di sangue. Soltanto la torcia nella mia mano illumina quella nuda pietra bagnata di vita scarlatta e impregnata di morte scura, i cui solchi impressi in epoche remote parlavano una lingua a me sconosciuta. Una lingua fatta di immagini e disegni, impossibile da decifrare o da interpretare.



"Arrivano! Arrivano!" L'urlo si diffuse potente lungo le pareti di pietra del castello; mancavano pochi minuti al completamento della ricerca, ma lo sguardo del Maestro non tradiva alcun dubbio o esitazione: il conclave avrebbe continuato in silenzio la sua opera fino al termine del periodo necessario. Le parole furono pronunciate una dopo l'altra con fermezza e precisione, ma neanche la voce altisonante del Maestro poteva coprire il suono del portone schiantato e i passi che cominciavano a invadere le scale che avrebbero condotto alla nostra sala. Mi guardai intorno, per quel poco che potevo: non avrei rotto la mia concentrazione in un giorno così importante. Quei soldati erano qui per portare via il nostro Maestro, avrebbero per sempre privato i nostri occhi della luce necessaria per comprendere quello che ci circonda: la luce della conoscenza, la luce della vita, la luce della fede: la luce degli Dei. Guardai i miei compagni, intenti a sostenere il Maestro in quello che sarebbe stato il suo ultimo incantesimo da uomo libero: nel giro di pochi minuti saremmo rimasti tutti ciechi, e le prigioni di Clerval avrebbero costretto per sempre alla solitudine e alla sofferenza l'uomo che noi tutti avevamo giurato di accompagnare lungo il suo cammino. Abbassai lo sguardo, osservando la carta che avevo tra le mani: un fante di quadri, il seme simbolo della nobiltà. Una nobiltà che non mi apparteneva più dal giorno in cui abbandonai la mia terra natale per venire ad Amilanta, abbracciando una ricerca che presto non sarebbe più esistita, spazzata via dall'ignoranza e dalla paura nei confronti di qualcosa che non si conosce...



...Mi fa male il braccio; lo tocco, e mi fa ancora più male. Non sono ferita, ma capisco che non potrò muoverlo. Se voglio tirare quell'anello dovrò farlo con il sinistro. Mi guardo intorno... non ci sono porte. Da dove sono entrata? Guardo in alto e capisco...



...Lo schianto simultaneo delle pesanti porte di legno che chiudevano gli accessi alla sala delle Convocazioni mise a dura prova la mia concentrazione: i soldati entrarono nella sala, splendenti nelle loro armature nere. Il simbolo del nostro nemico, il signore della guerra, sventolava sui loro vessilli, e decine di grifoni ci osservavano protendendosi dagli scudi e dalle armature. Il Maestro alzò le mani al cielo; gli invasori lo scambiarono per una resa, ma era piuttosto il segno che il nostro lavoro si era compiuto: da quel momento in poi la misteriosa ricerca che il nostro Maestro ci aveva chiesto di officiare prima della sua cattura era nelle mani del Tempo, il cui svolgersi avrebbe presto rivelato il successo o l'insuccesso dei nostri sforzi.

"Jean-Antoine DeFlay!", tuonò quello che sembrava il più alto tra gli ufficiali in grado. "In nome di sua maestà il Signore della Guerra io, Stearn Versére, sono qui per punire la tua eresia e i tuoi rituali sacrileghi e contrari ai dettami della Chiesa".

"Non vedo inquisitori tra voi", rispose con calma il Maestro. "E non vedo neanche sacerdoti. Il signore della Guerra possiede dunque l'autorità per.."

"Fate silenzio!", lo interruppe bruscamente l'ufficiale. "Non permetterò alla vostra bocca velenosa e infida di pronunciare un'altra parola". Cosi' dicendo fece un cenno ai suoi uomini. Guardai con tristezza i miei compagni, incontrando i loro sguardi affranti. Noi tutti confidavamo che il Maestro non sarebbe stato giustiziato, ma con l'accusa di eresia avrebbe comunque trascorso il resto della sua vita nelle segrete di Clerval.

Poi accadde, come in un lampo: di fronte allo sgomento di tutti noi, Stearn Versére sguainò la sua spada. "Non permetterò a una carogna come voi di respirare ancora". Con quelle parole vibrò un colpo improvviso, trafiggendo in un lampo il torace del Maestro.

Quella scena ci fece ghiacciare il sangue delle vere: incapaci di muoverci, guardammo il comandante dell'esercito di Keib estrarre la spada dal corpo del Maestro, anticipando un fiotto di sangue caldo e rosso. Cadde in ginocchio, subito prima che un secondo colpo si abbattesse su di lui: con orrore assistemmo al tremendo spettacolo della sua testa, ormai separata dal corpo, rotolare al centro della sala delle Convocazioni.

Guardai Versére negli occhi, sperando di leggervi anche il minimo accenno di pazzia: il mio cuore quasi si fermò nel petto quando mi accorsi della sua calma, segno del controllo che ancora esercitava sulle sue azioni. Fu in quel momento che capii che nessuno di noi avrebbe lasciato quella sala.

"Uccideteli tutti", ordinò il comandante. Così dicendo avanzò verso Mathr, sferrando un colpo rivolto verso la sua faccia: un secondo dopo il corpo senza vita del mio amico cadde in terra, a pochi metri da me. Arretrammo verso il centro della sala, circondati dai soldati nell'atto di sguainare le loro armi: molti di loro erano spaventati, ma il timore che nutrivano nei nostri confronti non era meno pericoloso dell'odio provato da Versére. Accadde tutto molto in fretta: il Maestro ci aveva proibito di utilizzare i nostri poteri contro altri esseri umani, ma in molti disubbidirono, spaventati a loro volta dalla paura di morire. Io non fui tra questi: accettai il mio inevitabile destino, stringendo in mano l'ultimo ricordo lasciatomi dall'uomo i cui insegnamenti mi ero impegnato a seguire: il fante di quadri. Morivo senza lasciare eredi, ma la mia famiglia non si sarebbe estinta... e giurai a me stesso che, in un modo o nell'altro, sarei riuscito a raccontare questa storia.


"Noooooooooooooooooooooooooooooooo!"

Mi svegliai di soprassalto, urlando a perdifiato: calde lacrime scendevano dai miei occhi, mentre rivivevo gli ultimi istanti di vita dell'uomo di cui avevo appena visto la morte. I miei occhi erano ancora velati dalle mura scure di quel castello, dal sangue che si infiltrava lungo le pietre che pavimentavano la sala delle Convocazioni... Poi vidi due occhi verdi, anch'essi in lacrime, che mi guardavano con stupore e con gioia.

"Lady Solice! LADY SOLICEEEE!" Yera mi si buttò addosso, abbracciandomi fino a togliermi il fiato. Istintivamente cercai di reggere l'impatto sollevando il braccio, ma appena un istante dopo fui invasa da una fitta di dolore. Incapace di trattenermi urlai ancora, abbandonandomi inerme sul letto.

"Oh... Mi... mi dispiace tanto! Io... sono una stupida! Vi ho fatto male, non volevo!" Yera si affrettò a sciogliere l'abbraccio, alzandosi in piedi. Le sorrisi: "non mi hai fatto alcun male", le dissi: "credo di avere un braccio rotto", aggiunsi poi, osservando la fasciatura che assicurava al mio corpo l'arto ancora fortemente indolenzito. Cercai di ricordare qualcosa, qualsiasi cosa... Ma non ci riuscii. Avevo un fortissimo mal di testa.

Yera si era alzata. "Devo correre a dirlo a sua signoria il Marchese!", disse trafelata. "E anche a lord Ryan! Erano così preoccupati... Abbiamo pianto così tanto... E devo anche dirlo a mastro Reahr, e al venerabile Ridde... e a Sir Malaki, e a..."

"Aspetta un attimo, Yera", la interruppi. "Non... ricordo nulla. Cosa mi è successo? Quanto ho dormito?"

La mia ancella mi guardò con occhi sgranati: "dormito?" mi disse. "Voi... non avete idea... di quanto siamo stati preoccupati..." La guardai, mentre ricominciava a piangere. Il suo pianto mi commosse: quelle lacrime erano per me.

Abbassai lo sguardo, guardandomi intorno: a quanto sembrava, ero rimasta svenuta per un lungo periodo di tempo. Due, forse tre giorni. Qualsiasi cosa mi fosse capitata, non la ricordavo. Man mano che il mio corpo riprendeva coscienza, dolori e formicolii cominciavano a invadermi da ogni parte. Mormorai una preghiera agli Dei, poi sollevai il lenzuolo e mi osservai. A quanto pareva non avevo ferite evidenti, ma solo qualche fasciatura: in testa, a una caviglia, a un ginocchio e al braccio: ques'ultimo era quasi certamente rotto. non doveva essere stato un combattimento quanto piuttosto una caduta, forse da cavallo.

I minuti successivi furono piuttosto veloci, e la mia scarsa capacità di concentrarmi su quanto accadeva intorno a me non mi aiutò: la mia stanza si riempì di facce amiche. Mio fratello fu il primo ad arrivare, di corsa, seguito a poca distanza dalla sua splendida moglie. "Lady Amy", dissi, cercando invano di inchinarmi dal letto: in quell'occasione constatai che anche la schiena mi doleva.

"Non ti sforzare", disse mio fratello: anche lui aveva le lacrime agli occhi: lacrime di gioia, certo, ma anche di sollievo. Un brivido mi percorreva lungo la pelle: era stata una caduta così grave da temere per la mia vita... o c'era dell'altro?

"Ryan", dissi, sforzandomi di parlare ancora. La voce mi usciva a fatica, con affanno. "Cosa..."

"Non parlare", mi interruppe, costringendomi gentilmente a rimettermi in posizione supina. "Devi solo pensare a riposarti, ora: avremo tutto il tempo per parlare quando starai meglio, d'accordo?"

Annuii, incapace di parlare ancora. Man mano che i secondi passavano la mia testa si faceva sempre più pesante, e gli occhi faticavano a stare ancora aperti: l'ultima cosa che ricordo è la faccia di mio padre. I suoi occhi non stavano piangendo e non accennò alcuna espressione, ma la sua gioia divenne tangibile quando, prima di perdere nuovamente i sensi, lo vidi parlare con il venerabile Ridde, sacerdote di Reyks; e fu proprio al dio della misericordia che la mia coscienza dedicò il suo ultimo istante: qualsiasi cosa mi fosse successa, ero sopravvissuta.
scritto da Solice , 04:52 | permalink | markup wiki | commenti (0)
 
18 maggio 517
Mercoledì 2 Maggio 2007

La caduta

June e Joan, Dhjou-Neh e Dhjou-Ahn, la rosa rossa e la rosa bianca: la prima, simbolo della passione e dell'amore terreno, talmente forte da sopravvivere alla morte; la seconda, simbolo dell'amore puro e incondizionato, libero dalla passione terrena... ma anche simbolo di morte. Rossa era la rosa che June portava tra i capelli quando all'inizio della ballata conosce Amon, colui che sarà in di lì a poco il suo carceriere; e bianca quella che orna il capo di Joan quando, dopo aver abbracciato la sorella per l'ultima volta, si consegna nelle mani del rapitore.

Dhjou-Ahn: rosa bianca. Un segnale indecifrabile per sir Thomas e Malaki, alla presenza dei quali sono avvenuti i miei dialoghi con il prigioniero di Valamer dopo la sua incarcerazione, ma non per me. Come avevo potuto ignorarlo? Troppo a lungo mi ero soffermata sull'interpretazione dei miei sogni: avevo colpevolmente frainteso le parole di padre Barkev, concentrandomi sul linguaggio onirico, trascurando quello degli uomini, dimenticando che entrambi sono opera del disegno degli Dei.

Non avevo alcuna prova a suffragio della rivelazione che avevo avuto pochi istanti prima: ma sentivo dentro di me la necessità di controllarne immediatamente la veridicità, di impedire che il troppo tempo impiegato per comprendere il messaggio potesse recare danni al segreto che avevo giurato di proteggere e custodire. Dovevo immediatamente raggiungere mastro Malkhas e convincerlo a consegnarmi quella lettera: sarebbe stata lei a rivelarmi se le segrete di Valamer imprigionavano un uomo di fede e se il segreto della rosa era stato o meno compromesso. Non avrei aspettato altro tempo per portare luce su questi dubbi, troppe ore erano già trascorse per colpa della mia cecità.

Dopo il suo arrivo, mastro Malkhas era stato alloggiato nella vecchia torre delle Termiti, che si trovava a circa tre metri dal palazzo: l'alto e massiccio edificio, contenente un gran numero di libri, era la residenza ideale per gli studiosi che venivano alloggiati nei pressi del palazzo. Era di certo il posto ideale per un individuo come lui, e quando sir Thomas e mio padre lo avevano convocato a Beid la torre era sembrata il posto ideale, sufficientemente distante dalle feste e dai banchetti per consentire la tranquillità necessaria a svolgere il suo incarico.

A mastro Malkhas era stata affidata la pergamena che il prigioniero di Valamer recava con sé: sua era la responsabilità di assicurarsi che non potesse essere fonte di pericoli diretti o indiretti, prima di comunicarne il contenuto. Purtroppo, tanto la ferita accusata da sir Thomas quanto il matrimonio avevano assorbito ogni possibile interesse nei confronti di quella pergamena: d'altronde, il ritardo di mastro Malkhas nel comunicarne il contenuto aveva lasciato intendere che non contenesse nulla di rilevante ai fini della scarcerazione del prigioniero o del ritrovamento di Rosalie. Le mie recenti scoperte avevano però portato alla luce una nuova possibilità: magari in quella pergamena era contenuto un messaggio che soltanto io ero in grado di leggere o interpretare, o qualche riferimento che soltanto chi fosse a conoscenza dell'esistenza della Rosa Bianca avrebbe potuto comprendere: forse il prigioniero di Valamer si aspettava che quella lettera sarebbe presto finita nelle mie mani, ed aveva puntato tutto su quell'eventualità, rifiutando di rivelare qualsiasi informazione in presenza di Malaki o di sir Thomas e continuando a chiamarmi Joan nel tentativo di far scattare in me la molla che avrebbe portato alla dimostrazione della sua buona fede.

Se c'era anche solo una possibilità che tutto questo fosse vero dovevo saperlo subito, senza aspettare un altro istante. Arrivai trafelata davanti alla porta della torre delle Termiti: una guardia di Beid piantonava li' nei pressi, a protezione dell'ingresso. Vedendomi arrivare a perdifiato mi guardò con espressione incuriosita.

"Salve", gli dissi, trafelata. "Il mio nome è Solice, e ho urgente bisogno di parlare con mastro Malkhas. Vi prego", continuai, vedendolo dubbioso, "ho davvero molta premura. E' necessario che io gli parli adesso, non posso aspettare".

La guardia perse alcuni secondi a osservarmi, grattandosi il mento: non l'avevo mai vista prima, era improbabile che mi conoscesse: in quel caso, se non si fosse fidato della mia parola, sarei stata costretta ad aspettare l'indomani.

Con mia grande sorpresa, la guardia annuì. "Va bene", mi disse. "Dopotutto, non credo che sarà un grosso problema per mastro Malkhas ricevere una visita a quest'ora".

Il suo tono era piuttosto divertito. Mastro Malkhas era noto per restare sveglio fino a tarda ora, studiando i suoi tomi nel silenzio della notte: evidentemente, il suo singolare comportamento non era ignoto alla guardia che era stata affidata alla sua porta.

La guardia aprì la porta della torre, avendo poi cura di accendere una lanterna che portava con sè.

"Seguitemi, prego" mi disse precedendomi all'interno dell'edificio.

Il piano terra della torre era occupato da una unica sala piuttosto spoglia, facente funzioni di anticamera: sparuti bauli e cassapanche erano disposti ai lati del muro, mentre al centro era disposto un tavolo circondato da una decina di sedie. Sul lato opposto rispetto all'ingresso incominciava la lunga rampa di scale che portava ai piani superiori, il cui accesso era bloccato da una robusta porta di legno.

"Mastro Malkhas!", chiamò la guardia, avanzando a larghi passi verso la porta. "Mastro Malkhas!", ripetè a gran voce, bussando con il pugno sul legno spesso.

La porta si aprì con un cigolio: era aperta. La guardia si girò verso di me. "Evidentemente sta dormendo", mi disse scrollando le spalle. "Spero che questa sveglia improvvisa non gli dia troppo fastidio". Cosi' dicendo si avviò lungo le scale, precedendomi.

Passammo cosi' il primo piano della torre, parzialmente occupato dagli alloggi delle guardie: "dormite qui?" chiesi alla guardia, notando che due dei letti erano preparati: come risposta, il mio accompagnatore si limitò a scuotere il capo. Passammo poi per il secondo e il terzo piano, occupati da scrivanie e scaffali polverosi a volte vuoti, a volte ingombri di libri e pergamene. Vi erano anche moltissimi oggetti di uso comune, misteriosi alambicchi contenenti sostanze rese inservibili dal tempo, ampolle dal contenuto misterioso, mappe e strumenti per comprendere la volta del cielo. Lo studio di mastro Malkhas doveva essere al quarto piano, mentre il quinto e ultimo era riservato ai suoi alloggi.

Raggiunta la porta di accesso al quarto piano, la guardia bussò ancora. "Mastro Malkhas!", ripetè un paio di volte, senza ricevere alcuna risposta.

"Dannazione", disse. "Il vecchio deve avere il sonno pesante. Ci ha detto una gran sfortuna, proprio oggi ha deciso di dormire di notte..." Cosi' dicendo mise una mano sulla maniglia, mentre con l'altra già si preparava a cercare la chiave. Non era necessario: anche questa porta si aprì, cigolando appena. La guardia alzò le spalle, evidentemente sorpresa dal fatto che mastro Malkhas non fosse solito chiudere a chiave neppure l'accesso alle sue stanze, e spalancò la porta.

"Ah, eccovi qui", esclamò volgendo lo sguardo verso l'alto. "Cominciavo a pensare che vi fosse successo qualc..."

Improvvisamente, tutto avvenne a una velocità innaturale. La guardia arretrò di scatto di fronte alla figura ammantata che si trovava in cima alle scale, quando quest'ultima si avventò di scatto su di noi. Dalla mia posizione riuscii a vedere che brandiva qualcosa, ma non feci neppure in tempo a gridare: sentii calde gocce di sangue dipingersi sul mio viso, mentre l'aria si riempiva del rumore sordo e bagnato del ferro che penetrava nella carne.

"Ah...gg...gghh.." riuscì appena a pronunciare la guardia prima di cadere rovinosamente al suolo mentre la lama veniva ritirata via dalla sua gola, passata da parte a parte. La lanterna esplose in una girandola di vetri luccicanti, proiettando dal basso verso l'alto ombre enormi e minacciose lungo la rampa di scale.

Ci volle tutta la mia forza di volontà per costringere le mie gambe a muoversi, vincendo il terrore di quel singolo istante, costringendomi ad ignorare il battito impazzito del mio cuore. Arretrai di scatto con l'intenzione di correre verso l'uscita, ma subito dopo fui costretta a gettarmi in terra per evitare un fendente rivolto verso di me: le gambe si rifiutarono di sorreggermi mentre arretravo lungo quegli scalini; caddi all'indietro, giungendo all'altezza del terzo piano. Il mio aggressore mi fu subito addosso, costringendomi a gettarmi dentro la sala ingombra di oggetti e scaffali: ogni mio movimento sembrava goffo e lento, se paragonato alla rapidità con cui il mio aggressore si liberava degli ostacoli che gli impedivano di raggiungermi. Dopo pochi secondi mi trovai come un topo in trappola, con le spalle chiuse da una delle robuste finestre di legno e vetro della torre, oltre la quale splendeva vivida la luce di Kayah.

Il mio aggressore si arrestò, come un predatore nell'atto di contemplare la sua preda. Non potevo più scappare, un pesante scaffale in legno di quercia chiudeva l'unica via di fuga. Mi ritrovai a pregare silenziosamente gli dei: forse c'era la possibilità che la luce di Kayah potesse impedire al mio carnefice di incedere ancora. Tale speranza venne ben presto vanificata dai lenti ma inesorabili passi con cui l'assassino riprese ad avanzare verso di me.

Non mi restava molto tempo. Pensai alla finestra affacciata sul vuoto della notte che si stagliava dietro di me, e in quell'attimo disperato mi tornò alla mente la canzone che da giorni mi ossessionava: la sorte mi aveva definitivamente costretta nei panni di Joan, dandomi la scelta tra consegnarmi inerme nelle mani del mio carnefice o rifiutare il destino avverso arrogandomi il diritto di decidere in prima persona la mia sorte. Una scelta impossibile, che agli occhi di chiunque non aveva alcuna reale via d'uscita: fino a poche ore prima avevo pensato a una soluzione che facesse dormire a Malaki sonni tranquilli, e sebbene l'avessi trovata non ero poi così convinta che avrebbe funzionato. Alzai lo sguardo, rivolgendomi alla luce della luna: la luce di Kayah, la luce di Abel: ripensai a quello che una volta mi raccontò, di come fosse sopravvissuto a una caduta che avrebbe dovuto condannarlo a morte certa o a un'esistenza di sofferenza, invalidità e dolore; pensai ai rischi che la Rosa Bianca e il mio stesso paese avrebbero corso se non fossi sopravvissuta, se non avessi avuto modo di rivelare le informazioni che ora, evidenti, si rivelavano a pochi istanti dalla mia probabile morte.

Fu con questi pensieri che mi piegai sulle ginocchia, ripensando a tutto ciò che avevo imparato sull'arte di evitare i colpi di un avversario, aspettando l'istante che avrebbe preceduto l'attacco del mio aggressore. Dopo pochi, interminabili istanti di attesa la spada vibrò, sibilando nella mia direzione: chiamando a raccolta tutte le mie energie balzai all'indietro, anticipando la lama diretta contro la mia gola.

Nel giro di pochi secondi sentii il vetro rompersi sotto le mie spalle, poi la fredda aria della notte che mi avvolgeva. Poi, improvvisamente, tutto si fermò: vidi due o tre persone nei pressi della torre, lo sguardo rivolto verso l'alto, costretto a mettere a fuoco un simile quanto inatteso spettacolo: poi, d'un tratto, incominciai a precipitare. Cercai di ruotare il mio corpo e di assumere una posizione che mi avrebbe consentito di attutire in qualche modo la caduta, poi pregai con tutto il mio cuore di aver fatto la scelta giusta, che tanto Malaki, quanto mio fratello e mio padre, quanto i miei amici potessero dormire sonni tranquilli... E, se questo non doveva essere, pregai affinché Pyros li proteggesse dal male e dal pericolo.

Poi tutto diventò buio.
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