
I
Tikki si sporse per raggiungere un fiore oltre il limitare della rupe. La treccia le scivolò davanti al naso e la bambina perse l’equilibrio, ma poggiò la mano a terra e si tenne in ginocchio.
Alzò la testa e si voltò a guardare casa sua, poco distante. Vide il tetto coperto d’erba, la finestra aperta e, attraverso di essa, la mamma che stava preparando da mangiare. Non s’era accorta che lei stava giocando vicino al dirupo, per fortuna, altrimenti l’avrebbe sgridata.
Quel pomeriggio c’era un po’ di foschia, che in basso, sull’acqua, era densa ed impediva di scorgere l’altra sponda del fiordo. Solo la cresta delle montagne emergeva dalla nebbia e si confondeva con le nuvole cariche di pioggia.
Tikki era abituata a quel paesaggio ombroso. La sua casetta si riparava dietro il fianco di un roccione a picco sulle acque del grande fiordo che si spingeva per leghe nell’interno, tra le montagne, i ghiacciai e le foreste: l’Artiglio. Erano isolati dal villaggio, di cui si intravedeva il campanile di legno più in alto, oltre il torrente.
Ma il fiorellino era ancora lì, tra le rocce più giù di quanto il suo braccio arrivasse. Tikki provò ancora a sporgersi ma, per quanto si allungasse, non riusciva che a sfiorarlo con la punta delle dita.
Sbuffò. Si stese pancia a terra. Sentì umido e freddo attraverso la stoffa, però in questo modo il fiore era raggiungibile. Sporse il braccio, e la sua testa bionda adesso si appoggiava sul niente, sulle rocce che scomparivano in basso nella foschia. Un rigagnolo spumeggiava dal lato del roccione. Tikki finalmente raggiunse il fiore e lo colse. Rimase qualche istante così, in questa insolita posizione che le permetteva di guardare un po’ più in là del solito.
C’era qualcosa che si muoveva sull’acqua, appena un’ombra in lontananza. Forse un uccello che planava, o molti uccelli vicini, a giudicare dalle dimensioni. Avanzava molto lentamente.
Tikki si tirò su in ginocchio, reprimendo un’improvvisa vertigine. Il vestitino era un po’ infangato, ma il fiore era così bello che n’era valsa la pena. Sorrise soddisfatta.
« Mamma! » corse verso casa con il fiore in mano, « mamma guarda che bello! È per te! »
Saltellò sui gradini che tenevano la casetta di legno sollevata rispetto al terreno e spalancò la porta. C’era un buon profumo di stufato, e la mamma stava spennando un uccello seduta al tavolo.
« Zitta! Non vuoi mica svegliare tuo fratello? » Poi la guardò meglio, « guarda come hai ridotto il vestito… ti sei rotolata nel fango? »
« Ti ho portato… questo fiore… » Tikki le si avvicinò un po’ avvilita, « non ti piace? »
La mamma sospirò e le rivolse un sorriso, « oh, grazie… è molto bello. Però parla sottovoce, che tuo fratello si è addormentato adesso… »
Tikki ancora teneva in mano il fiore, e si avvicinò a sbirciare nel sacco dove la mamma stava infilando le piume. « Ti posso aiutare? » le chiese, quasi ficcandoci la faccia dentro. Le piume avevano un odore ancora pungente, e facevano pizzicare il naso.
« Metti il fiorellino nella tazza con un po’ d’acqua. »
Tikki ubbidì e, passando vicino al focolare, sbirciò nella pentola che bolliva sul fuoco.
« Tra quanto si mangia? »
« Quando torna tuo padre dal villaggio » rispose lei, « non dovrebbe mancare molto. Hai fame? »
« Sì! Una fame da orso! »
La mamma si alzò in piedi, poggiò l’uccello ormai spiumato sul tavolo e si asciugò le mani col grembiule. Poi sollevò il coperchio della madia e diede alla bambina un cantuccio di pane.
« Tieni questo intanto… ». Si avvicinò alla culletta sospesa dove dormiva il neonato e controllò che non si fosse svegliato. Tikki afferrò il pane con tutte e due le mani sporche, e lo addentò con grande soddisfazione.
« Mangi pane e fango, piccina mia… » le disse sua mamma accarezzandole i capelli.
«Mamma, lo sai che c’era una cosa che camminava sul mare, prima? » le disse Tikki tra un boccone e l’altro, « una cosa grossa e lontana… come un uccello enorme che vola basso basso. »
« Chissà, forse è uno stormo di migratori che vanno via per l’autunno. »
Tikki annuì, diede un altro morso al pane e raccolse le briciole dal tavolo. « Torno a giocare allora? Papà quando viene? »
« Vai tesoro, ti chiamo io quando è pronto. E sta lontana dal ciglio della rupe, mi raccomando. »
« Certo mamma. »
Mentre Tikki correva fuori, sua madre l’accompagnò con lo sguardo. Subito un vagito dalla culletta la distrasse, si avvicinò al maschietto addormentato e lo fece dondolare per qualche istante. Poi tornò a dedicarsi alla cucina.
Non era passato molto tempo, che riconobbe i passi di suo marito che facevano cigolare i gradini di casa. Gli andò incontro sistemandosi i capelli con la mano.
« Dove sta la mia Rose? » disse lui, e lei già gli era tra le braccia. Si baciarono e lui sorrise annusando il buon profumo di stufato. « Ho una fame da orso! » disse, poi posò una mano sul ventre della moglie, « e vedo che anche il guerriero in arrivo cresce a vista d’occhio! »
« Avrà preso da suo padre? » rispose lei. In effetti lui era alto, largo di spalle e con un gran barbone rossiccio che gli nascondeva una cicatrice sullo zigomo. Lui scoppiò in una risata tanto forte da far agitare l’altro piccino nella culla.
« Fa piano! » subito Rose lo azzittì, « non sai quanto c’è voluto per addormentarlo… ». Poi prese le scodelle e le dispose sul tavolo. « È tutto pronto, comunque, possiamo mangiare. »
Lui annuì, e si avvicinò alla finestra. « Chiamo Tikki, allora… »
Guardò fuori e non vide la bimba. C’era il roccione sulla sinistra che riparava dal vento, la betulla con l’altalena attaccata, l’orticello protetto dai teli e, più avanti, la rupe. Oltre si stendeva la nebbia.
« Scusami… » gli disse Rose, spostandolo appena per aprire la madia e prendere il pane da tagliare. Lui si scansò di un passo, e tornò a guardare fuori.
Adesso scorse Tikki, proprio sul ciglio della rupe, che si sbracciava, agitava le mani come per salutare qualcuno. Il vento le muoveva la treccia bionda, e anche la gonnellina.
« Ma cosa…. »
Rose prese con un panno il manico della grossa pentola, ed aiutandosi con una mestola iniziò a distribuire lo stufato nei piatti. Lui sentì lo stomaco che gli brontolava. Ma chi diavolo stava salutando Tikki?
« La piccola sta in piedi sul ciglio » borbottò mentre si avviava alla porta per andarla a chiamare, « ora buscherà qualche scapaccione »
« Sgridala dopo, Ulfrid, ora mangiamo, che si raffredda… »
Lui uscì dalla casetta e subito chiamò: « Tikki! Vieni immediatamente qui! »
La bimba lo sentì, si girò verso di lui e, per nulla intimidita, gli fece cenno di avvicinarsi. « Papà! Ci sono i draghi! » gridò, « vieni a vedere, corri! »
Ulfrid scese i gradini e si avvicinò.
L’altra sponda del fiordo era indistinguibile, celata dalla nebbia fitta. Ma presto vide che qualcosa si muoveva sull’acqua, in basso, una moltitudine di sagome scure.
« Vieni via di lì, Tikki » disse quasi sottovoce.
La bambina era rapita da quelle strane forme nella nebbia. Volti di draghi intagliati nel legno, mostri marini, cigni ombrosi: le prue di molte e molte navi da guerra che avanzavano silenziosamente sulle acque calme del fiordo.
Ulfrid corse da Tikki e l’afferrò per un braccio, strattonandola via. Incurante delle lamentele della bambina, la trascinò in fretta verso casa.
« Rose! » chiamò ancora ai piedi del portico, « Rose prendi il piccolo! »
Lei uscì sulla porta, incuriosita dalle grida. Lui le corse incontro e le sbatté davanti Tikki.
« Mamma… ci sono i draghi… » piagnucolò la bambina. Rose guardò il marito che entrava in casa come una furia. « Porta i bambini al bosco, nascondetevi! » le ordinò.
Spinse da una parte il tavolo apparecchiato, lo stufato volò a terra.
« Ma che stai facendo… »
« Ti ho detto di portare in salvo i bambini, dannazione, ubbidisci! »
Sollevò un’asse del pavimento e tirò fuori un’ascia da battaglia.
Rose mandò un grido, afferrò il piccolino dalla culla e Tikki per un braccio, e cominciò a scendere i gradini. Suo marito uscì un attimo dopo, con l’ascia in una mano ed un corno nell’altra.
« Fatevi sotto, Utumni » mormorò. Poi corse alla rupe, alzò il corno e suonò.
*
Quello stesso giorno, al villaggio di Tuor c’era aria di festa.
Da molti anni Gjlda non aveva visto simili preparativi, da quando, ancora giovane, aveva assistito alle nozze di Astolf il Borgomastro con Irene di Flakkedam. Allora aveva tre figli piccoli, un marito e poteva ricamare anche punti minuscoli senza difficoltà, mentre ora, nonna e vedova, cominciava a vederci troppo male da vicino per eseguire un ricamo. E a sposarsi questa volta era proprio Margrethe, la figlia minore del Borgomastro, una bella ragazza molto somigliante a sua madre.
« Nonna! Che fai qui giù da sola, non vieni a darci una mano? »
La vecchia sorrise e salutò con la mano il bambino. « Mi sto riposando un momento, c’è bisogno d’aiuto? »
« La mamma dice che devi venire per i dolci allo zenzero. Lei non è tanto capace… »
Gjlda, aiutandosi con il bastone, si alzò in piedi. « Dammi il braccio, Tomska, ho paura di scivolare… su, da bravo. »
Il bambino le fu accanto in un salto. Per raggiungere le prime case del villaggio, un po’ più in alto, era necessario oltrepassare il torrente che di lì a qualche passo si tuffava nel fiordo. I sassi erano scivolosi e in pendenza.
« Se la mamma lo sa, che sei venuta qui giù da sola, nonna…. » le disse il bambino con aria un po’ complice, « lei dice che qui è pericoloso per te, che rischi di farti male. »
Lei si appoggiò al braccio del bambino – Tomska aveva otto anni ma era già abbastanza alto – e si avventurò tra le sterpaglie e i sassi lungo il torrente, verso il guado.
« Ma tu non glie lo dirai, non è vero? » disse lei, « e così magari tra tanti dolcetti allo zenzero ce ne sarà qualcuno in più per il mio nipotino silenzioso… »
Tomska rise. « Terrò il segreto, nonna, sta tranquilla! »
Ogni volta che percorreva quel sentiero, Gjlda sentiva di essere ancora viva. Le sue coetanee, le altre vecchie del villaggio, erano ormai sempre chiuse in casa, o al massimo uscivano nella piazzetta a mezzogiorno, nulla più. Temevano il freddo, gli spifferi, l’umidità e la nebbia che nasceva dal mare. Lei invece, più passava il tempo, più sentiva il desiderio di stare all’aperto, di guardare l’acqua nera e le barche alla pesca, le piaceva osservare gli alberi e restare da sola ad ascoltare il rumore del ruscello.
« Forse è segno che sto diventando un po’ rimbambita… » disse quasi tra sé.
« Che dici, nonna? » Tomska spostò alcuni rovi di lato col piede per allargarle il passaggio, « che segno? »
« Niente, niente… »
L’ultimo tratto era in piano, tra alcune case di legno col tetto ricoperto di zolle di terra. Alcune avevano un basamento in pietra, mentre altre posavano su travi rialzati in modo da stare discoste dall’umidità del suolo.
« Aspetta, fermati nonna, hai una foglia tra i capelli »
Lei si passò una mano in testa, e scrollò il capo. « Adesso? Ce l’ho ancora? »
« No, sei perfetta. Su, spicciamoci! »
Più in alto, nella piazzetta di Tuor, c’era parecchia gente. Alcuni uomini stavano mettendo dei festoni tra una casa e l’altra, mentre le donne sistemavano lumini alle finestre per il corteo nuziale.
« Posso accenderne uno? » chiese Tomska, avvicinandosi, « me ne fai accendere almeno uno? »
« È ancora presto, questi servono per il corteo . Oh, ecco che ci sei, Gjlda… ti stavano cercando, di là al forno! »
Gjlda annuì. « Sì, grazie… sto andando proprio lì. »
Passarono davanti al grande fienile addobbato per l’occasione, ma non ci si poteva nemmeno affacciare dentro, due robusti pescatori impedivano l’accesso ai curiosi.
« Stasera sarà lì dentro il ballo » spiegò Tomska a sua nonna, « ma non vogliono che nessuno vada a vedere come l’hanno decorato… però io ho scoperto che ci sono alcune fessure sul retro da cui si vede dentro… lo sai? Ed è tutto pitturato di bianco, alle pareti! È bellissimo! »
La vecchia annuì.
« Anche quando mi sposai io, tantissimi anni fa, festeggiammo in un grande fienile imbiancato… è la tradizione, e c’erano tanti fiori e lanterne colorate… »
« Davvero? E c’era anche l’Interprete? Lo sai che hanno fatto venire un Interprete da Flakkedam, uno importante… dicono che stasera ci sarà un Vaticinio con un capretto, sai? »
Gjlda non lo sapeva.
« Hanno fatto le cose in grande allora. Io pensavo che sarebbe bastata la benedizione dell’Allieva dell’Interprete, quella ragazza, Riss… di solito basta un Allievo. Anche ai miei tempi c’era solo l’Allievo che leggeva il fegato di un uccellino… » sorrise al pensiero, « e lo sai a me cosa disse? Che avrei vissuto tanto da vedere combattere in guerra i miei nipoti! »
Tomska la guardò di sottecchi: « come sarebbe a dire! »
« Sarebbe a dire che puoi prendertela comoda ad imparare a maneggiare le armi… e che non c’è nessuna fretta! » rispose Gjlda, e ridacchiò. Anche il bambino sorrise, la prese per mano e continuarono fino al forno di buon passo.