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- Sven Herzog -
 
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Morgoblath

Una maschera funeraria simile a quella con cui, secondo la leggenda di Mòrgul, venne sepolto R'khai l'Antico.Divinità dei Veleni, delle Droghe e delle Malattie dalle controverse origini semi-divine. Presso le popolazioni Elfiche e Naniche è noto anche come il Dio dei Miasmi e delle Paludi, secondo i suoi seguaci egli è anche il Dio della Ricerca Alchemica e della Rigenerazione. Il suo culto presenta molteplici affinità con quello di Shub-Niggurath, con il quale condivide la concezione dell'aldilà. Il suo nome deriva da un'antica leggenda diffusa tra le genti nomadi, e secondo le teorie più diffuse sono state proprio le tribù delle popolazioni al di là delle Allston orientali a diffondere i suoi insegnamenti tra le genti del Continente.
Il suo è un culto solitario e sovente praticato in luoghi ameni, lontani delle città e dalle comunità rurali. Tipico dei suoi seguaci è un approccio pragmatico alla ricerca scientifica, che viene perseguita senza remore o compromessi. L'adepto di Morgoblath percepisce se stesso come un uomo di scienza che aspira al perfezionamento della sua arte, con la quale ambisce a purificare la società dall'ignoranza e dalla debolezza.
Forte è anche l'attaccamento alla tradizione, maggiormente legato all'aspetto formale dei rituali che non alla sacralità del culto: caratteristica dei Sekhmet di Morgoblath è l'utilizzo della maschera, che indossa di fronte ai suoi interlocutori in riferimento a quanto era solito fare la Divinità quando aveva ancora forma umana.

La leggenda di Mòrgul il Profeta


Nella notte che fece seguito agli eventi della Prima delle Estati, il Dio del Fuoco scagliò sul Continente frammenti del suo potere. Le sfere infuocate solcarono il cielo, illuminando a giorno le vaste pianure degli uomini, i picchi montuosi dei figli di Krinn e le grandi foreste del popolo degli Elfi. I Grandi Sovrani delle Tre Stirpi, uniti da un comune destino, seguirono con lo sguardo le scie fiammeggianti fino a vederle raggiungere il suolo. Il loro impatto provocò grandi cataclismi e terribili esplosioni. La terra cominciò a tremare, per poi frantumarsi tra enormi crepacci da cui sgorgavano fiumi di fuoco. I fiumi si risvegliarono dai loro letti, devastando i campi e travolgendo villaggi e città. Gli alberi secolari furono messi in ginocchio dal vento, e i più fieri tra loro furono schiantati al suolo. Molte tra le antiche montagne vennero distrutte e a molte altre, in zone diverse, fu consentito di innalzarsi verso il cielo. Gli oceani, infine, sorsero a purificare la terra, ricoprendola con la loro massa d'acqua e spegnendo le ultime braci del fuoco purificatore. Al termine di quella lunga notte, i Grandi Sovrani condussero nuovamente i loro popoli alla luce. Le Tre Stirpi erano sopravvissute alla Prima delle Estàti, e molte altre ne avrebbero viste nei secoli a venire.
A partire da quel giorno, e per molti decenni successivi, alcune donne cominciarono a partorire senza aver preso marito. Molte di loro vennero considerate come delle prostitute, e vennero pertanto punite con il fuoco e con il ferro, così come la legge prevedeva. Tutte, in punto di morte, dichiaravano di aver visto in sogno una colonna di fuoco. Altre, avendo ricevuto la stessa visione e sapendo di essere innocenti, cercarono rifugio scappando lontano dalle loro tribù. E fu così, tra le montagne e le terre selvagge, che vennero dati alla luce i Profeti.

A poco a poco i Profeti fecero ritorno tra le genti, cantando le gesta del Dio del Fuoco e compiendo in suo nome notevoli prodigi. Molti di loro vennero messi a morte dai grandi Sciamani con il beneplacito dei loro Sovrani, preoccupati che la loro parola potesse suscitare entusiasmi tali da mettere in pericolo il proprio potere: fu in quei paesi che ebbe origine il culto della Tenebra. Altri, facendo uso del loro potere, affrontarono e sconfissero gli stessi Sciamani sostituendosi a loro: in quei paesi ebbe origine il culto della Luce. Ad altri ancora, infine, fu permesso di restare: quelli furono i paesi in cui la Luce e la Tenebra crebbero l'una nel rispetto dell'altra, alternandosi all'interno dell'animo umano come il giorno e la notte. Ma un siffatto equilibiro non era destinato a durare per sempre.

Innumerevoli giorni erano trascorsi dal termine della Prima delle Estati quando Felan, figlia di Vlath Eknaar il Profeta, smise di avere le sue lune. La giovane donna non aveva mai conosciuto un uomo: il suo promesso sposo, Ekon della stirpe dei Cacciatori, non si era ancora congiunto con lei. Grande fu lo stupore e la meraviglia di Vlath Eknaar quando si rese conto che la figlia, allo stesso modo di come era avvenuto alla sua defunta madre, portava in grembo un frammento del potere del Dio del Fuoco. L'anziano Profeta non vide mai il volto del nascituro: egli morì a seguito di una lenta e misteriosa malattia pochi mesi prima della nascita di suo nipote.
Alla morte di Vlath Eknaar, tutti pensarono che il titolo di Profeta sarebbe confluito nelle mani di R'khai lo Sciamano. Egli era un uomo ambizioso, dotato di grande sapienza: la sua intelligenza era seconda soltanto alla sua sete di potere. Maestro delle arti magiche e dotato di arcani poteri, aveva passato gli ultimi anni della sua vita ad approfondire i misteri delle arti alchemiche, apprendendone i rudimenti dalle popolazioni Nomadi che si erano spinte oltre le montagne Allston. Egli era inoltre, come suo padre e suo nonno prima di lui, legato all'antica tradizione del Signore dei Corvi, il culto che il Popolo delle Grandi Distese aveva abbandonato a seguito dell'arrivo dei primi Profeti.
R'khai non aveva mai sopportato Vlath Eknaar, ma da anni nutriva un segreto desiderio nei confronti della sua unica figlia, Felan. per questo motivo, alla morte del Profeta, egli rivelò alla donna la sua intenzione di prenderla come sposa, così da garantire a se stesso il titolo di Profeta. La ragazza rifiutò, giurando che sarebbe rimasta fedele a colui che il padre aveva scelto come suo sposo. R'khai, in preda alla rabbia, ordinò l'uccisione di Ekon della stirpe dei Cacciatori. La ragazza si rivolse allora al Sovrano delle Grandi Distese, Vanark detto l'Imperioso. Ma le orecchie del Sovrano non ascoltavano altra voce che quella di R'khai: decise pertanto di condannarla a morte, insieme al figlio che portava in grembo. La donna si trovò a dover fuggire, inseguita dai guerrieri della sua stessa tribù. Trovò rifugio presso le Grandi Paludi, riuscendo così a far perdere le sue tracce. R'khai, convinto che la madre e il figlio avrebbero trovato la morte tra i mortali miasmi di quel territorio, ordinò ai suoi uomini di straziare il corpo di una schiava e di portarlo ai piedi del Sovrano spacciandolo per quello della giovane: proclamò quindi conclusa la stirpe degli Eknaar e assunse definitivamente il titolo di Profeta.

Gli anni passarono veloci: ben presto più nessuno si ricordò di Felan e del suo bambino. In quel periodo la tribù delle Grandi Distese si era stanziata al centro di una enorme vallata dominata da cinque promontori, sui quali venne costruita una enorme città. Varnak l'Imperioso era ormai vecchio e stanco, e una grave sciagura si era abbattuta sulla sua casa: il suo unico erede, Zaevir, era affetto da una misteriosa malattia che neppure il potere del grande Sciamano R'khai sembrava in grado di curare.
Fu con l'arrivo della stagione delle grandi piogge che giunse presso la grande città la fama di un mistico prodigioso, i cui poteri sembravano in grado di guarire ogni sorta di malattia. Varnak l'Imperioso ordinò ai suoi soldati di trovarlo, inviandoli presso le tribù nomadi delle Grandi Paludi. Per giorni gli emissari batterono quei territori ostili, popolati da esseri mostruosi. Quando infine tornarono dal Sovrano, con loro vi era anche il misterioso guaritore: egli era Mòrgul, ultimo della stirpe degli Eknaar. Il suo nome, secondo la lingua dei padri, significava "portatore di speranza".

Poco e nulla si conosce dei fatti che portarono alla sopravvivenza del figlio di Felan: vi fu chi raccontò che le mostruosità senza nome che infestavano le Grandi Paludi non osarono toccarla, intimoriti dall'origine divina del feto che cresceva dentro di lei. Secondo altri la donna ricevette l'aiuto delle misteriose popolazioni che abitavano quel territorio, che insegnarono a lei e al bambino le nozioni necessarie per sopravvivere alle sue insidie. Vi è anche chi sostiene che la donna venne scelta da un potente spirito abitatore delle Grandi Paludi per diventare la sua Regina. Quello che è certo è che Mòrgul della stirpe degli Eknaar era riuscito a venire alla luce, privo di un padre e lontano dalla sua gente come tutti i Grandi Profeti. E come loro, molti anni dopo, il destino lo aveva ricondotto tra la sua gente.

Quando Mòrgul della stirpe degli Eknaar fu condotto presso il giaciglio dove riposava Zaevir si limitò a toccare la fronte del ragazzo con le sue mani. Subito la febbre cominciò a defluire dal corpo del malato: pochi istanti dopo egli si sollevò dal letto, strappandosi di dosso il sudario e pronunciando a gran voce il nome di
Reyks. La scena si consumò alla presenza di Varnak l'Imperioso, che non esitò a inneggiare al miracolo del Dio della Guarigione. Nella stanza vi era anche il Grande Sciamano, che per via della sua ormai veneranda età aveva assunto il nome di R'khai l'Antico. Egli osservò a lungo il volto di Mòrgul, fino a riconoscere gli inconfondibili tratti della donna che aveva un tempo desiderato. In quel momento comprese che per mantenere il suo potere avrebbe dovuto sconfiggere il nuovo Profeta. Ma, con sua grande sorpresa, Mòrgul si dimostrò più veloce e astuto di lui. Mentre ancora il piccolo Zaevir gridava a gran voce il nome di Reyks, l'ultimo degli Eknaar rivolse la sua attenzione al Sovrano, dichiarando di conoscere l'origine della malattia che aveva appena sradicato dal corpo del suo erede. "Se è così, parla", gli rispose Varnak l'Imperioso. Fu a quel punto che Mòrgul puntò il dito in direzione di R'khai l'Antico. "Guardatelo a vista e impeditegli di fuggire, poiché suo era il potere che provocava la malattia nel corpo di vostro figlio, così come suo fu il potere che provocò la malattia nel corpo di Vlath Eknaar il Profeta. Spalancate le porte della sua dimora, guardate nelle sue vesti! A rivelarvi queste cose è Mòrgul, figlio di Felan, ultimo della Stirpe degli Eknaar: oggi vi mostro colui che rappresenta il male che infesta la vostra città e che ambisce a diventarne Sciamano, Profeta e Sovrano".

La dimora dello Sciamano fu perquisita, così come le sale del tempio che egli abitava dal giorno della morte di Vlath il Profeta. Vennero così portati alla luce i suoi esperimenti alchemici e gli oggetti maledetti che utilizzava per alterare e amplificare il suo potere innato. Poche ore prima di essere condannato a morte R'khai l'Antico pose termine alla sua vita, offrendosi in sacrificio al Signore dei Corvi. Venne quindi tumulato dai suoi seguaci, insieme a tutti i suoi averi, nella grande necropoli situata sotto il tempio della Città dei Cinque Promontori. Mòrgul, per aver salvato la vita del figlio del Sovrano, venne proclamato Profeta, e assunse di fatto anche il titolo di Sciamano.
Molte lune passarono da quei giorni di festa: Varnak l'Imperioso venne alfine vinto dalla morte, lasciando il titolo di Sovrano nelle mani del figlio Zaevir. Mòrgul continuò ad esercitare la pratica di guaritore: la sua fama crebbe fino a raggiungere le altre grandi città. Anno dopo anno migliaia di ammalati e bisognosi venivano curati dal potente Profeta di Reyks. Molti di loro, per ringraziare il Dio della Guarigione, intraprendevano interminabili viaggi al solo scopo di diffondere la sua parola per il Continente. Altri facevano invece ritorno alle proprie case, dove si adoperavano per diffondere il suo nome all'interno delle loro comunità.

Fu nel corso di una notte priva di luna che la città dei Cinque Promontori ricevette una visita inaspettata. I soldati che montavano di guardia videro le mura illuminarsi a giorno per via della luce sprigionata dalle torce dell'esercito nomade che le circondava. Il Sovrano, che da quella notte divenne noto come Zaevir il Temerario, non esitò a presentarsi sulle mura, affrontando a viso aperto gli acerrimi nemici.
"Non siamo qui per combattere", gridò il portavoce dei Nomadi. "Chiediamo l'aiuto di Mòrgul il Profeta, che salvi la vita alla nostra Matriarca".
E fu così che le porte della città si aprirono ai Nomadi, che trasportarono l'enorme corpo esanime della Matriarca Ben-Arah fino ai piedi del tempio un tempo consacrato al Signore dei Corvi. E fu così che Mòrgul il Profeta posò le mani su di lei, strappando la malattia dal suo corpo e restituendola alla vita. E quando la gigantesca figura della Madre dei Figli delle Steppe si levò nuovamente in piedi, la città di riempì del clamore delle esultazioni dei suoi figli: "Onore al salvatore di Ben-Arah!", urlavano i guerrieri della stirpe senza dimora, battendo le armi sugli scudi: "Onore al Profeta!".

La notizia della prodigiosa guarigione della Matriarca Ben-Arah viaggiò portata dal vento oltre i picchi innevati delle Allston, attraversando le Grandi Distese fino a giungere alle steppe più remote. Immensa divenne la fama del Profeta, e duratura fu la pace con le popolazioni Nomadi: molti di loro, incuriositi dalle usanze del Popolo delle Grandi Distese, cominciarono a recarsi spesso in visita presso la città dei Cinque Promontori. Anche Ben-Arah, la Matriarca, cominciò a frequentare il palazzo del Sovrano. Per molte delle lune che seguirono i due condottieri discussero nelle stanze di Zaevir il Temerario: tutti pensarono che, presto, il Popolo delle Grandi Distese si sarebbe congiunto con i Figli della Stirpe Senza Dimora.
Un giorno, mentre Zaevir il Temerario conversava con la Matriarca Ben-Arah, Mòrgul il Profeta ricevette la visita di una giovane donna dalla pelle olivastra e dai lunghi capelli scuri. Quando egli le chiese il motivo della sua visita, la figlia delle steppe rispose che era venuta per ringraziarlo di aver salvato la loro madre, la Matriarca Ben-Arah. Il Profeta non era abituato alla compagnia delle donne, e il suo primo impulso fu quello di mandarla via: ma la giovane seppe vincere le sue paure, e riuscì a convincerlo a farla restare. E fu così che il Popolo delle Grandi Distese si congiunse con i Figli della Stirpe Senza Dimora. Quando, al mattino Mòrgul volle conoscere il suo nome, ella disse di chiamarsi Sadash-Shea.

Le lune presero a sussegirsi veloci. Ogni notte, quando Zaevir il Temerario conversava nelle sue stanze con la Matriarca Ben-Arah, Sadash-Shea bussava alla porta di Mòrgul: ma quando, durante il giorno, egli provava a cercarla, sempre non vi riusciva. Nessuno, tra i figli della stirpe senza dimora, sembrava conoscere un volto che avesse quel nome. "Dimmi dove vivi", le chiedeva ogni notte il Profeta: "dimmi a chi devo chiederti in sposa". Ma Sadash-Shea scuoteva la testa, convincendolo a smettere di parlare.
Arrivò infine, all'alba che seguiva una notte senza luna, la notizia che il Popolo delle Grandi Distese si sarebbe unito ai Figli della Stirpe Senza Dimora. Quello fu il giorno in cui Zaevir il Temerario presentò alle sue genti il volto di colei che sarebbe stata la sua sposa. Ancora una volta le strade della città si riempirono del clamore delle esultazioni: quel giorno, le voci del Popolo delle Grandi Distese e quelle dei Figli della Stirpe Senza Dimora raggiunsero il cielo unite in un unico grido di giubilo. Ma Mòrgul il Profeta, quel giorno, rimase in silenzio. La sua bocca si schiuse appena, senza emettere alcun suono, quando i suoi occhi videro il volto della donna che si trovava al fianco del suo Sovrano: ella veniva da tutti salutata come Ash-Arah, la Figlia delle Steppe, primogenita di Ben-Arah. Ma lui, e soltanto lui, sapeva che il suo vero nome era Sadash-Shea.

Per sette giorni la città dei cinque promontori festeggiò il matrimonio tra Zaevir il Temerario e Ash-Arah, la Figlia delle Steppe. Per sette giorni Mòrgul tentò di soffocare l'incontrollabile fiamma di cui ardeva il suo cuore. In un primo tempo egli pensò di poterla controllare: si impose pertanto, per il bene del suo Sovrano e del suo popolo, di rinunciare alla principessa. Ma il Profeta non era destinato a trovare pace: Sadash-Shea continuò a desiderare la sua compagnia in misura maggiore rispetto a quella del consorte che gli era stato imposto. Neppure i poteri taumaturgici del Profeta si dimostrarono sufficienti a dissipare questa febbre, che trascinò ben presto i due giovani nell'oscura spirale dell'adulterio. E fu così che Mòrgul si trovò a dover tradire giorno dopo giorno la fiducia del suo Sovrano, incontrandosi notte dopo notte con la sua sposa. E mentre i suoi sensi venivano appagati il suo cuore si spegneva a poco a poco, soffocato dal senso di colpa, dal rimorso e dalla paura. Ben presto decise di abbandonare il palazzo di Zaevir il Temerario, trasferendo la sua dimora nel Tempio.

Fu lì, nei saloni un tempo abitati da R'khai l'Antico, che il Profeta cominciò a cambiare. Il suo interesse nei confronti dei malati e dei bisognosi prese ad affievolirsi: i molti pellegrini giunti da ogni parte del Continente cominciarono ad essere respinti. Con la sola eccezione della principessa Ash-Arah, che egli continuò a chiamare Sadash-Shea, il Profeta cominciò a privarsi della compagnia delle persone, preferendo al loro posto quella delle cose. Prese a considerarsi diverso da chiunque altro, a detestare chi rendeva omaggio al Sovrano e alla sua regina perpetuando una menzogna che lui solo poteva vedere. Ben presto egli smise di sentire il dolore dei suoi sensi di colpa, affievolito notte dopo notte dalle parole d'amore che Sadash-Shea gli sussurrava nelle orecchie, alleviando le sue sofferenze, giustificando le sue colpe di fronte agli Dei.

Fu in una notte priva di luna che Sadash-Shea si ammalò. Quando Zaevir il Temerario portò la sua consorte al Tempio implorando il Profeta di salvarla egli non poteva sapere che Mòrgul aveva già chiesto, invano, l'aiuto degli Dèi: i poteri del Profeta si erano rarefatti tanto quanto si era affievolito il suo amore nei confronti della stirpe umana. Per molte lune, mentre Sadash-Shea percorreva il cammino che portava alla morte, Mòrgul implorò il Signore della Guarigione di salvarla: ma neanche una volta, nelle sue preghiere, egli si pentì delle sue azioni, né si dichiarò disposto a dimenticarla in cambio della sua vita. Per questo motivo la sua supplica non venne ascoltata. Le sue speranze, infrangendosi contro il silenzio di Reyks, cominciarono presto a tramutarsi in rabbia.
Nel mezzo di una notte senza stelle, le porte della grande necropoli vennero nuovamente spalancate: Mòrgul si diresse presso il sepolcro di R'khai l'Antico, al cui interno erano contenute le ultime testimonianze della sua scienza arcana. Nei giorni che seguirono, lo studio e la ricerca invasero la sua mente e il suo cuore sostituendosi alla preghiera. I malati che ancora si ammassavano alle porte della città dei cinque promontori, ansiosi di ricevere l'aiuto del Profeta, cominciarono nuovamente ad affluire nelle grandi sale del Tempio: le loro sofferenze vennero utilizzate da Mòrgul per condurre i suoi esperimenti, per affinare la sua conoscenza dell'oscura arte di R'khai l'Antico. Le notti della città dei cinque promontori vennero squarciate dalle loro urla di dolore. La maggior parte di quegli sventurati non uscì mai da quelle stanze: i pochi che riuscirono a sopravvivere non vennero riconosciuti dalle loro stesse famiglie e finirono scacciati dalla propria casa. Alcuni di loro, prima di morire, raccontarono di aver visto Mòrgul indossare una maschera bianca simile a quelle che venivano usate dai Sacerdoti del Signore dei Corvi per coprire il volto dei defunti al momento della sepoltura.
Al termine di un inverno di neve e pioggia le ricerche di Mòrgul raggiunsero infine il loro scopo: Sadash-Shea tornò alla vita insieme alla primavera. Grande fu la gratitudine espressa dal suo legittimo sposo, ma altrettanto vasti erano ormai divenuti i suoi sospetti.

Fu all'alba di un giorno senza sole che le porte del tempio vennero spalancate da Zaevir il Temerario. Il Sovrano aveva seguito la sua sposa nel cuore della notte, osservandola scomparire all'interno dei grandi saloni un tempo consacrati al Signore dei Corvi, gli stessi da cui da tempo provenivano urla disumane. Fu lì, nudi come il marmo su cui erano distesi, che il Sovrano li sorprese ancora addormentati: rivoli rossi macchiavano il pavimento che costituiva il loro talamo: schizzi di quello stesso sangue si protendevano come serpenti fino a raggiungere i loro corpi, disegnando su di essi simboli blasfemi. Sul volto di Mòrgul, bianca e striata anch'essa di sangue, Zaevir il Temerario riconobbe la maschera funeraria che molti anni addietro era appartenuta a R'khai l'Antico.
Vinto dalla gelosia, reso furioso da un così empio spettacolo, Zaevir direzionò la lancia contro colei che aveva a torto continuato a considerare sua. Mòrgul si svegliò sentendola urlare, e subito poté sentire il suo sangue scorrergli tra le mani. "Le tue empie azioni condannano entrambi: non sei più degno di essere chiamato Profeta, così come sei indegno della tua stessa vita". Con queste parole Zaevir il Temerario conficcò la lancia nel petto di Mòrgul il Profeta, spingendola verso il suo cuore. Ma la lancia non riuscì ad avere ragione del suo bersaglio: con un terribile suono la sua punta si spezzò, cadendo in frantumi sul pavimento di marmo. La morte di Sadash-Shea aveva reso il cuore di Mòrgul duro e impenetrabile come l'ossidiana. Nel suo sguardo non vi era più alcuna traccia del Profeta. Zaevir il Temerario fece un passo indietro, lasciando cadere la lancia. Il suo volto era paralizzato dal terrore. Subito dopo si voltò e fuggì, chiamando a raccolta le sue guardie.
Mòrgul rimase da solo, al centro della grande sala del tempio, con il corpo di Sadash-Shea prossimo a spirare tra le sue braccia. Neppure l'oscura scienza di R'khai l'Antico avrebbe potuto salvarla. All'alba di quel giorno senza sole si spense Sadash-Shea, la principessa dei Nomadi: quello stesso giorno, insieme a lei, anche l'anima di Mòrgul esalò il suo ultimo respiro. Quella stessa notte Colui che un tempo fu chiamato Profeta abbandonò la città dei cinque promontori, portando con sé il corpo della Figlia della Stirpe delle Steppe.

Mòrgul uscì dalla città alle prime luci dell'alba. Nessuno dei guerrieri che provarono a fermarlo sopravvisse. Nessuno, tra coloro che furono in grado di riconoscerlo, visse abbastanza da poterlo raccontare. La leggenda narra di come egli si spinse verso le Grandi Paludi, lo stesso luogo da dove era giunto molti anni prima per salvare la vita di Zaevir il Temerario. Il Sovrano si spense pochi giorni dopo, sconfitto dal ritorno di quella stessa malattia.
La città dei Cinque Promontori si trovò ben presto a subire l'attacco dei Nomadi guidati dalla Matriarca Ben-Arah, decisa a vendicare la morte di sua figlia. Privo al tempo stesso del suo Sovrano, dello Sciamano e del Profeta, il popolo delle Grandi Distese andò incontro a una sanguinosa sconfitta. Dopo aver conquistato il trono che fu di Zaevir il Temerario, la Matriarca Ben-Arah si recò quindi fino alle Grandi Paludi. Lì trovò Mòrgul ad attenderla, il corpo di Sadash-Shea ancora tra le sue braccia, il sangue della principessa ancora sulle sue mani, il suo volto ancora coperto dalla maschera di R'khai l'Antico. Quel giorno, Colui che un tempo venne chiamato Profeta pronunciò le sue ultime parole all'orecchio delle genti mortali.
"Ben-Arah, Madre dei popoli, io ti consegno il corpo che fu di tua figlia. Il suo sangue, il tuo sangue, oggi viene purificato dal mio potere. Verrà diffuso dalla tua discendenza, mescolandosi con quello di tutte le stirpi dell'uomo. Sarà messaggero di morte per chi si mostrerà debole, e portatore di forza per chi si mostrerà degno".

Nelle lune che seguirono quel giorno, la Matriarca Ben-Arah mise in pratica ciò che aveva compreso delle parole di Colui che un tempo venne chiamato Profeta. Le tribù nomadi si spinsero con i loro guerrieri oltre i confini delle grandi città-stato, portando ovunque morte e distruzione. Per molti anni il territorio delle Grandi Distese fu flagellato da sanguinose guerre e terribili epidemie. Le Grandi Paludi dove egli era scomparso assunsero il nome di Paludi di Morgoblath, che nel linguaggio dei popoli antichi significa
portatore di veleno, portatore di malattia.

Le origini del Culto

Attendibilità storica della Leggenda di Mòrgul

La leggenda di Mòrgul il profeta è, secondo l'opinione degli storici, la più antica testimonianza storica del culto di Morgoblath ad oggi rinvenuta. Nonostante la sua attendibilità sia stata più volte ridimensionata nel corso dei secoli, essa rappresenta una risorsa fondamentale per ricostruire la genesi di una delle più complesse Divinità tra quelle venerate nei territori del Continente di Sarakon.
Il dibattito storiografico sviluppatosi sulla leggenda ha ruotato, nel corso dei secoli, attorno ai seguenti punti:
  • La collocazione geografica della città dei cinque promontori, menzionata a più riprese dalla leggenda. Se si prende per buono il riferimento alle paludi di Morgoblath è probabile che la città si trovasse in un punto non meglio precisato dei territori che circondano la Marca di Uhr, dove però non esistono tracce evidenti di una città costruita su cinque promontori. Tale esplicito riferimento identifica quasi certamente la città Ducale di Benson, che sorge effettivamente su cinque promontori, trovandosi però lontana dalle suddette paludi al punto da rendere poco verosimili molti degli eventi narrati.
  • I numerosi riferimenti al culto del Signore dei Corvi: a lungo gli storici hanno pensato che si trattasse di una imprecisione, trattandosi piuttosto dell'arcaico culto del Signore dell'Eternità, anch'esso riconducibile alla figura di Shub-Niggurath. Più di recente questa ipotesi è stata rivista, in virtù della tesi secondo la quale il Signore dell'Eternità avrebbe assunto il nome di Signore dei Corvi (o Dio della Morte) a seguito dell'avvento dei Profeti e del culto di Pyros, limitando i suoi ambiti alle pratiche funerarie.
  • Sadash-Shea, il nome dietro al quale la principessa Ash-Arah nasconde la sua reale identità, è secondo molti un esplicito riferimento alla figura di Shasda. Tale culto sembra però aver avuto le sue origini in luoghi molto diversi, e difficilmente poteva essere noto alle popolazioni Nomadi al di là delle Allston.
Questi e altri fattori consolidano l'opinione comune che molti dei riferimenti storici e geografici della leggenda siano frutto di elaborazioni successive della leggenda dovute alla tradizione orale e, pertanto, non attendibili.
A prescindere dalla verosimiglianza degli eventi narrati appare comunque indubbio che l'origine geografica del culto abbia avuto luogo nei territori corrispondenti all'attuale Ducato di Benson: molte delle testimonianze della Divinità sono concentrate in quell'area, e anche i ritrovamenti contenuti nelle rovine dei Ducati confinanti fanno pensare a una diffusione del culto tramite linee direttrici provenienti da quelle zone.
Per quanto riguarda le origini epistemologiche del culto, la teoria più accreditata è quella che, in linea con quanto narrato dalla leggenda, vede Morgoblath discendere da un'empia deformazione della parola di Reyks: tale spiegazione trae la sua forza dalle numerose ipotesi sulla diffusione, nei territori corrispondenti all'attuale Ducato di Benson, dei cosiddetti Guaritori del Vespro. E' quasi certo che questi missionari si siano scontrati in vario modo con l'antico culto del Signore dell'Eternità (il Signore dei Corvi della leggenda), riconducibile a Shub-Niggurath e presente in quei territori fin da epoche remote. E' inoltre del tutto probabile che tali città, nel corso dei secoli, abbiano subito la nefasta influenza delle antiche invasioni Nomadi, la cui caratteristica era proprio quella di mescolare la pratica religiosa esistente con la propria.

L'origine Nomade

L'ipotesi che attribuisce ai Nomadi la paternità della figura di Morgoblath è del resto supportata dalla leggenda stessa: l'oscura influenza che la principessa Sadash-Shea riuscì ad esercitare su Mòrgul il Profeta simboleggia proprio la forza pervasiva con cui rituali di quelle popolazioni si imposero sulla pratica religiosa dei popoli antichi che abitavano i territori occidentali del Granducato.
L'assenza di documenti sulle consetudini delle tribù Nomadi impedisce di stabilire con certezza se il culto di Morgoblath fosse esteso in quel periodo anche al di là delle Allston: quel che è certo è che furono i Nomadi a diffondere per primi la pratica dell'uso del veleno. Facevano inoltre uso di droghe estratte da funghi o da resine di alberi particolari, che utilizzavano per entrare in contatto con gli Spiriti e con le Divinità. Le loro ondate migratorie, infine, coincidevano spesso con il manifestarsi di malattie sconosciute contro le quali il corpo dei popoli antichi non era adeguatamente equipaggiato. Numerose raffigurazioni di quel periodo, volte a rappresentare l'invasione dei nomadi, descrivevano il loro arrivo come un cataclisma, portatore di morte e di sciagure.

La diffusione sul territorio

Nel periodo che corrisponde all'era dei Grandi Eroi si registrarono almeno tre massicce ondate migratorie provenienti dalle steppe oltre le Allston orientali. Numerose altre invasioni, di entità più lieve, si susseguirono fino ai primi anni della dominazione turniana. La maggior parte delle antiche testimonianze presenta l'arrivo dei nomadi come una catastrofe, ma di fatto molte tribù riuscirono a coesistere in modo pacifico con le città-stato situate nei territori di Benson, di Greyhaven e di Krandamer. Alcune tribù Nomadi entrarono a far parte della società Shanti, contribuendo alla fondazione e al popolamento di molte città e villagi sui fiumi. In altre tribù prevalse invece la spinta alla mobilità, che portò i Nomadi a spingersi verso Occidente fino a entrare in contatto con le tribù dell'ovest, in particolare nei territori di Feith e di Elsenor.

Le droghe e i veleni

Caratteristica fondamentale della pratica religiosa delle popolazioni Nomadi era la venerazione dei Grandi Spiriti, potenti entità che rappresentavano i vari aspetti del mondo sensibile. Con loro era possibile comunicare per mezzo dei sogni, che potevano avvenire durante la notte o mediante l'uso di particolari composti preparati mescolando in vario modo sostanze ricavate da piante, insetti e animali. Le alterazioni che le resine di alcune piante provocavano alle capacità percettive degli esseri viventi erano già note alle popolazioni Elfiche che abitavano la Foresta di Lankbow, ma furono senza dubbio le popolazioni Nomadi a insegnare e a diffondere ai popoli antichi l'utilizzo dei composti nella pratica religiosa, e non solo. Sostanze diverse erano utilizzte all'interno dei rituali sociali e di gruppo allo scopo di confondere e ottenebrare i sensi: altre venivano somministrate durante o dopo le grandi battaglie, per fugare la paura nel cuore dei guerrieri o per lenire il dolore provocato dalle ferite o dall'approssimarsi della morte. Altre ancora, in grado di provocare la morte o la paralisi e simili alla cera, venivano applicate sulle lame e sulle punte delle frecce allo scopo di provocare la disfatta dei nemici.
Tali insegnamenti si diffusero ben presto lungo tutto il Continente, fondendosi con le conoscenze officinali proprie delle culture locali e determinando la nascita delle prime forme di alchimia.

Lo sviluppo del culto a Greyhaven

La leggenda di Mòrgul si diffuse tra i popoli antichi come un'ombra che seguiva i movimenti migratori delle tribù Nomadi: molti tra coloro che si avvicinavano ai misteri dell'alchimia, al momento di porsi domande di ordine morale relative all'opportunità di raggiungere i propri scopi ricorrendo a sostanze venefiche o a empie pratiche sperimentali, cominciarono a cercare le risposte nell'immonda commistione tra i precetti dei Guaritori del Vespro e le teorie esistenzialiste di Shub-Niggurath. I seguaci di Morgoblath fecero tesoro di molti degli assunti propri del culto del Dio della Morte: cominciarono a considerarsi degli eletti, ai quali la Divinità aveva fatto dono di un'intelligenza superiore in grado non soltanto di comprendere i misteri della scienza alchemica, ma anche di influenzarne e determinarne i risultati. Questo dono era accompagnato da una missione di ordine superiore, la cui importanza era tale da giustificare qualsiasi mezzo: la ricerca compulsiva della purezza e della perfezione, da ottenere in vita allo scopo di mostrarsi degni dell'aldilà. Le modalità con cui tale ricerca andava compiuta erano espresse chiaramente dalle parole pronunciate da Mòrgul, Colui che un tempo fu il Profeta, alla Matriarca Ben-Arah: diffondere il sangue per purificare il sangue, provocando la morte dei deboli e la prosperità delle stirpi destinate a sopravvivere.

Il culto di Morgoblath oggi

Il compito del Sekhmet è quello di dedicarsi allo studio e all'approfondimento della ricerca alchemica, senza porsi ostacoli o limitazioni di sorta. Lo studio e la diffusione dei veleni e delle malattie, concetti frequentemente associati alla Divinità dalla Chiesa della Luce, rappresentano in realtà soltanto una minima parte dello scopo del seguace: l'obiettivo del Sekhmet di Morgoblath non è quello di provocare stragi o di diffondere epidemie in modo incondizionato, ma di apprendere ed esporre le caratteristiche, le vulnerabilità, le debolezze e i punti di forza degli organismi viventi. In moltissimi casi queste ricerche vengono svolte su animali, singoli individui o su piccola scala: non di rado, è lo stesso corpo del Sekhmet a divenire oggetto di esperimenti e studi. Anche nei casi in cui la ricerca del Sekhmet si spinge al punto da rivolgersi a intere popolazioni, egli è comunque animato da un obiettivo preciso. Il seguace di Morgoblath non si ritiene un untore, nè ambisce a rendersi responsabile di stragi incontrollate. Al contrario, tende a considerare se stesso un purificatore della razza e della società: suo è il compito di comprendere chi merita di vivere e chi merita di morire, estendendo al corpo e al sangue l'analisi che il seguace di Shub-Niggurath effettua sull'animo e sulla mente dei propri interlocutori.
Il Sekhmet di Morgoblath vive solitamente lontano dai centri abitati, circondandosi soltanto di individui che considera in qualche modo funzionali al proseguimento della sua ricerca, siano essi cavi, aiutanti, emissari o alleati. E' estremamente silenzioso, e considera la parola superflua come un segno di debolezza. Tende a non stringere rapporti e legami sentimentali, che considera un elemento di debolezza. Si sente libero di non osservare le leggi della società, alle quali si ritiene superiore: tende, al contrario, ad essere fedele alla parola data alle persone nelle quali ripone la sua fiducia o con cui interagisce. Fa un largo uso di intermediari, dei quali apprezza l'umiltà o le azioni che li rendono consapevolmente o meno strumenti del volere della Divinità. E' per natura poco propenso a scendere a patti e a compromessi. A differenza del Sekhmet di Shub Niggurath, egli non ha alcun interesse a dimostrare la sua superiorità: è infatti convinto che le sue capacità e le sue conoscenze siano più che sufficienti a dimostrarlo a chiunque sia degno di poterlo comprendere. Alterna momenti di grande autocontrollo a scatti di incontrollabile ira. Allo stesso modo la razionalità e il pragmatismo che lo contraddistinguono sono talvolta interrotti da improvvisi lampi di impulsività e violenza.
Le sue convinzioni sulla società costituiscono la base di quasi tutti gli altri culti della Tenebra: è convinto che gli uomini non abbiano tutti la medesima dignità e ritiene legittimo e naturale che i più meritevoli, coloro a cui la Divinità ha fatto dono di intelligenza e capacità superiori, possano imporre il proprio volere sui perdenti, sugli illusi, sugli incapaci e sui servi. Le sue convinzioni sulla maggior dignità delle dinastie dominanti, per quanto riguarda i territori di Greyhaven, tendono ad essere simili a quelle professate dagli altri culti delle Tenebre, poiché è sua opinione che le grandi stirpi dei popoli antichi siano state raggiunte dal sangue di Ben-Arah. A differenza degli altri seguaci della Tenebra, però, il [Sekhmet]] di Morgoblath è convinto di essere in grado di poter dimostrare scientificamente la presenza del sangue della Matriarca. Per questo motivo le sue opinioni sulla dignità e sulla purezza della stirpe di individui specifici possono risultare diverse.
Le caratteristiche antisociali di molti dei suoi seguaci hanno reso per secoli il Sekhmet del Dio dei Veleni un interlocutore difficile persino per gli altri culti delle Tenebre e hanno limitato enormemente la penetrazione del culto nella società. Nel corso degli ultimi duecento anni, però, molte delle caratteristiche del culto sono cambiate: il progresso e la diffusione della pratica alchemica, il riconoscimento formale ottenuto dai ricercatori di Magia presso l'autorità e la forza crescente della Chiesa della Luce hanno contribuito a rendere il seguace del Dio dei Veleni un interlocutore privilegiato e un prezioso alleato.

Influenza sulla società

La protezione di Morgoblath

A dispetto dell'attitudine ostile nei confronti della società e degli individui, una caratteristica importante del Sekhmet di Morgoblath è quella di poter garantire, per mezzo dei suoi Poteri, la protezione dai veleni, dalle malattie e dalle cancrene. Tale peculiarità, secondo molti pari o persino superiore alle capacità dei Guaritori di Reyks, ha reso i suoi seguaci estremamente richiesti in momenti particolari della storia del Granducato di Greyhaven e persino dell'Impero di Delos. La ricerca della protezione di Morgoblath, sotto forma di guarigione o persino di immunità, è stata nel corso dei secoli la principale fonte di potere, denaro e influenza per il culto.

La Scienza dei Veleni

L'impatto maggiore del culto di Morgoblath sulla società non è esercitato dai suoi Sekhmet, quanto piuttosto dai numerosi composti da loro sviluppati. Il Sekhmet di Morgoblath è nella maggior parte dei casi un maestro conoscitore delle proprietà alchemiche, e la tradizione di ricerca a cui attinge affonda le sue radici negli esperimenti compiuti da R'khai l'Antico. La sua abilità, unita al potere conferitogli dalla Divinità, lo rende senza ombra di dubbio un nemico estremamente pericoloso, o un prezioso alleato per chiunque abbia l'ardire di coinvolgerlo nei propri affari.
La scienza dei veleni, come i suoi seguaci sono soliti chiamarla, si basa sullo studio di quattro tipologie di composti:
  • I veleni, volti a provocare la paralisi, la cecità, la morte (o altre debilitazioni del corpo o della mente) dell'individuo a cui vengono somministrati. Essi vengono raramente utilizzati dai seguaci, e sono generalmente preparati sotto richiesta o in cambio di servigi da loro ottenuti.
  • Le infezioni, volti a propagarsi a seguito del contatto tra l'individuo a cui vengono somministrati e altri esseri viventi. Si tratta in massima parte di malattie o parassiti, il cui utilizzo è simile a quello descritto per i veleni: talvolta i seguaci ne fanno uso per mettere alla prova il diritto alla sopravvivenza di un gruppo di individui, lasciando che la Divinità garantisca ai più meritevoli la sopravvivenza.
  • Le droghe, volte a stordire o a potenziare le attività fisiche o mentali dell'individuo a cui vengono somministrate. Alcuni esempi: lenire il dolore, ridurre il bisogno di sonno, potenziare le capacità di resistenza del corpo a seguito di sforzi prolungati. I seguaci ne fanno frequente uso durante i loro rituali, e spesso anche nella vita quotidiana. Molti di questi composti inducono dipendenza: alcuni di essi sono molto richiesti, e vengono quindi venduti o scambiati con favori o benefici.
  • Gli antidoti, volti a contrastare gli effetti delle altre tipologie di composti. Ciascun antidoto tende a essere efficace contro un composto specifico, ma alcuni forniscono difese immunitarie sufficienti a ridurre o a cancellare l'effetto di interi gruppi di veleni, droghe o malattie aventi caratteristiche comuni. Il loro utilizzo è simile a quello descritto per i veleni. Non di rado il valore dell'antidoto subisce un notevole incremento a seguito del diffondersi di veleni o epidemie fornite, diffuse o acquistate dai medesimi seguaci.

L'uso della Maschera

Caratteristica del culto di Morgoblath è l'utilizzo di una maschera volta a coprire il volto del seguace. Le origini di questa usanza, presente sin dalle prime testimonianze del culto, sono senz'altro dovute ai brani della leggenda di Mòrgul che narrano di come egli, nelle ultime fasi della sua esistenza, ebbe indosso la maschera funeraria appartenuta a R'khai l'Antico.
Le origini di quel particolare sono da ricondurre ad alcune caratteristiche proprie della pratica funeraria del culto del Signore dei Corvi: la maschera aveva la funzione di proteggere il volto del defunto dai venti gelidi dell'Inferno di Ghiaccio, taglienti fino al punto di squarciare le carni. L'utilizzo che ne fa Mòrgul induce a un ribaltamento di prospettiva: l'oggetto perde la sua funzione di elemento di difesa e diventa, al contrario, un modo per controllare gli effetti del proprio potere. La maschera diviene così il simbolo dell'alchimista, visto come elemento regolatore degli effetti devastanti e incontrollabili propri della scienza e della pratica alchemica.
L'utilizzo rituale della maschera, che il Sekhmet è solito indossare quando rivolge la propria attenzione ai suoi interlocutori, ha contribuito alla diffusione di innumerevoli leggende e dicerie sul conto dei seguaci del Dio dei Veleni. Secondo molti, l'oscuro potere garantito da Colui che un tempo fu il Profeta provoca una costante e progressiva degenerazione della pelle, particolarmente visibile sul volto e tale da rendere il Sekhmet un ritratto vivente di morte e putrefazione: la maschera non è quindi che un modo per nascondere lo spaventoso prezzo che la Divinità chiede ai suoi seguaci. Altre ipotesi vedono nella maschera il modo con cui il Sekhmet manifesta la purezza della propria identità, proteggendo il suo volto dagli sguardi impuri.

I simboli di Morgoblath

Il culto condivide parte della simbologia comune a Shub-Niggurath, a cui deve anche gran parte dell'impostazione dottrinale e con il quale spesso viene confuso. Nel corso dei secoli, in conseguenza del maggiore impatto dei suoi seguaci sulla società, la figura di Morgoblath ha assunto una connotazione simbolica più definita. Segue un elenco dei simboli con i quali egli è maggiormene noto:
  • un serpente nell'atto di mordersi la coda, o una testa di serpente.
  • una lucertola, salamandra o iguana.
  • una locusta o uno sciame di locuste.
  • una maschera bianca striata di sangue: la stessa con cui, secondo la leggenda, venne sepolto R'khai l'Antico.
Nei dipinti e negli affreschi dei popoli antichi la Divinità viene rappresentata nella sua forma umana, così come essa è descritta nella leggenda di Mòrgul: un individuo incappucciato con le mani insanguinate e il volto coperto da una maschera bianca, in molti casi sporca di sangue. Anche questa raffigurazione ricorda molto da vicino quella di Shub-Niggurath.
Oltre ai rettili, alla lucertola, alla salamandra, all'iguana e alla locusta, tra gli animali associabili a Morgoblath troviamo il rospo, il tafano, l'albanella e il gufo di palude.
I minerali comunemente associati alla figura del dio dei veleni sono in gran parte gli stessi legati al culto di Shub-Niggurath: l'ossidiana, la grafite, l'alabastro e l'ambra: ad essi si aggiungono il rame, lo zinco, il piombo, la galena, il litargirio, l'orpimento, il cinabro e molti minerali estremamente rari (in alcuni casi persino leggendari) come la tectite, la moldavite e l'antimonio.
I colori dominanti del culto sono il verde, il nero e il color rame, talvolta erroneamente (o volutamente) confuso con oro.
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