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Solice Kenson
Cronache della Campagna di Caen
Solice Kenson
"Voi avete coraggio e siete molto convincente: ma non appena sarete chiamata a combattere, al primo combattimento che possa realmente definirsi tale, voi morirete. E non parlo di scontri confusi o ingarbugliati, dove nessuno capisce fino in fondo quello che sta facendo o magari ha meno voglia di uccidervi che di portare la pelle a casa. Parlo di uno scontro vero, in cui affronterete una persona con le vostre sole forze. Beh, è giunto il momento che qualcuno che vi vuole bene vi dica che queste forze non basteranno proprio contro nessuno".
creato il: 20/05/2005   messaggi totali: 91   commenti totali: 32
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Scritto il 02/04/2007 · 32 di 91 (mostra altri)
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10 maggio 517
Lunedì 2 Aprile 2007

Il quarto giorno (terza parte)

June e Joan erano le due figlie di un ricco mercante che viveva in una piccola città tra i monti Allston. Nonostante fossero molto simili nell'aspetto avevano un carattere molto diverso: June amava la vita mondana, i viaggi e il divertimento, mentre Joan preferiva restare a casa, dedicandosi allo studio e allo svolgimento delle faccende domestiche. Nel corso di uno dei suoi viaggi June conosce un individuo tanto affascinante quanto malvagio che la convince a venire via con lui: riuscito nell'intento, costui tenta di far confessare alla ragazza il luogo dove il padre custodisce i proventi dei suoi commerci, ma la ragazza, accortasi della troppa insistenza, si rifiuta di rivelarlo. Quel rifiuto accende l'ira dell'uomo, che la rinchiude nella sua dimora e le strappa il ciondolo che porta al collo.

Quello stesso giorno, l'individuo si reca alla residenza del padre con l'intento di chiedere un riscatto in oro per la vita dell'ancora ignara ragazza, ma una volta giunto a destinazione si imbatte in Joan: attratto dalla possibilità di rapire anche lei si presenta come un mercante amico del padre, ma la ragazza non gli concede altro che una breve conversazione, declinando cortesemente l'invito di recarsi a passeggio con lui e rendendo di fatto impossibile il rapimento. Furioso per l'ennesimo rifiuto, l'uomo le rivela di aver rapito la sorella mostrandole il ciondolo strappato, dichiarando di volere come riscatto non già l'oro, ma lei stessa.

Dopo qualche attimo di riflessione Joan prende la decisione di accettare, ma soltanto a patto che la sorella venga rilasciata il giorno stesso, e che non sia informata di tale accordo: dà la propria parola che, una volta che questo sarà avvenuto, non avrebbe mancato di mantenere il suo impegno. L'uomo, soddisfatto per aver ottenuto tale impegno, acconsente alla richiesta e libera June, che una volta a casa corre ad abbracciare la sorella convinta che la triste avventura sia finita. Joan ascolta il racconto di June e le dice che non dovrà più preoccuparsi, per poi uscire per sempre dalla porta del suo palazzo per non tornare mai più.

"E poi?" Chiese Malaki, visibilmente insoddisfatto della conclusione.

Lo guardai perplessa: "e poi... non c'è un poi. Finisce cosi', con Joan che si allontana all'orizzonte..."

"Non ci credo", esclamò scuotendo la testa. "Non è certo così che finisce una favola."

"Non è una favola, infatti", risposi sorridendo. "è una leggenda che ha ispirato una serie di canzoni e di ballate, molte delle quali possono essere ascoltate in molte delle locande di Beid e della zona sud di Amer".

"Dopo quello che ho sentito in quelle segrete, non ho intenzione di intristirmi ulteriormente", sentenziò Malaki. "Non esistono leggende che non abbiano almeno un lieto fine, e non riesco a immaginare nessuno migliore di voi a trovarne uno nel caso in cui questa facesse eccezione: quindi, principessa", continuò lanciandomi uno sguardo di divertita severità, "il vostro umile servitore vi chiede di impegnarvi a farlo".

Erano passate quasi due ore da quando avevamo lasciato Valamer. La mia espressione, a seguito della conversazione avuta con l'individuo che fino a poco prima chiamavo Jack e il cui nome richiedeva ora uno sforzo mnemonico non indifferente, non doveva essere delle migliori. Malaki aveva rispettato i miei pensieri per molteplici minuti, per poi rompere il silenzio con l'unica domanda che poteva riuscire nell'intento di distogliermi per qualche tempo dal loro peso.

"Perchè ti chiamava Joan?", aveva detto. E quasi senza accorgermene, nel giro di qualche minuto mi ero già addentrata nella narrazione degli eventi di una delle letture più affascinanti in cui avevo avuto modo di imbattermi nel periodo che precedeva la mia esperienza a Focault.

"Mi avete ingannata", dissi scuotendo la testa e ricambiando lo sguardo arcigno e divertito: "conoscevate già la storia di June e Joan, compreso il suo finale alternativo".

"Ah, no di certo", si affrettò a rispondere il cavaliere. "A dire il vero qualcosa avevo sentito qui e là, ma non avevo mai avuto modo di ammirare il quadro completo. Quanto al finale alternativo", aggiunse, "confesso di preferirlo. Joan muore come un'eroina, ed è di certo un destino migliore che non abbandonarsi alle grinfie di quel bastardo".

In effetti, la leggenda di June e Joan possedeva più di un finale, frutto di una serie più o meno vasta di aggiunte e tradizioni differenti. La maggior parte dei cantastorie di Beid era solita aggiungere alcune strofe al finale originario: Joan avrebbe assunto del veleno subito prima di prestare fede al suo accordo; l'uomo malvagio lo avrebbe scoperto al momento di condurla all'interno della sua abitazione, vedendo la ragazza sbiancare e cadere in terra priva di vita. Respinto per la terza volta, il rapitore avrebbe quindi commesso il suo ultimo errore recandosi nuovamente al palazzo delle due sorelle, deciso ad ucciderle entrambe e finendo così preda delle guardie cittadine avvisate da June: e sono proprio le sue parole rotte dal pianto, mentre stringe tra le braccia il corpo senza vita della sorella, a costituire l'epilogo di questa versione dei fatti.

"Ecco, cosi' va molto meglio", esclamò raggiante Malaki non appena sentì il secondo finale. "Mantiene la sua tragicità e mi fa dormire sonni tranquilli: non voglio immaginare una ragazza come Joan viva e nelle mani di quell'individuo spregevole! Non la pensate così anche voi, principessa?"

"No", risposi con decisione. Malaki mi guardò, aspettandosi una motivazione.

Feci del mio meglio per non deluderlo. "La Joan della seconda versione prende la decisione di suicidarsi: un gesto che può essere visto da noi come coraggioso e in alcune circostanze persino nobile, ma che non è di certo tale agli occhi degli Dei. Coloro che ci hanno donato la vita sono gli unici ad avere il potere di togliercela, ed è alla loro benevolenza che dobbiamo trovare la forza di affidarci persino quando tutto sembra perduto: il suicidio indica il rifiuto di volerlo fare, chiudendosi ad ogni speranza, ad ogni fiducia che possano liberarci dalla nostra disperazione. No, la Joan di quel finale non mi fa certo dormire sonni tranquilli... E lo stesso dovrebbe valere anche per voi."

Malaki non disse nulla, limitandosi a riflettere su quanto avevo detto. "Non ci avevo pensato", disse dopo alcuni minuti. "Tuttavia, questo non depone certo a vostro favore: vi ho chiesto un finale migliore, e me ne avete fornito uno che ora so essere persino peggiore del primo".

"E' vero", dissi sorridendo. "Mi dispiace. Come posso rimediare?"

"Ne voglio uno che faccia dormire sonni tranquilli, tanto a me quanto a voi. Accettate la sfida?"

"Quanto tempo ho?" chiesi, divertita da quell'insolita richiesta.

"Il tempo di tornare a palazzo".

"Se riesco nell'intento, promettete di aiutarmi a compiere quello che devo?"

Malaki a quel punto si fermò, guardandomi con aria improvvisamente seria. Era una richiesta difficile, un impegno che non valeva certo quanto il finale di una leggenda.

L'individuo in precedenza noto come Jack aveva dichiarato di chiamarsi Netjerikhet Zauemia Ruinethot: tre parole che costituiscono allo stesso tempo, stando a quanto ci ha raccontato, un nome e un titolo nobiliare, secondo le usanze di un'antica civiltà presente in alcune zone di Amer fin dai secoli dimenticati, prima che la luce rischiarasse le tenebre in cui brancolava la popolazione di Greyhaven. Sempre stando alle sue dichiarazioni, tale nome non appartiene originariamente a lui bensì ad un individuo vissuto oltre 200 anni fa: uno stregone che, insieme ad altri come lui, compiva degli studi in contrasto con la tradizione magica esistente. Tali studi non hanno mai raggiunto gli occhi di un sacerdote che potesse giudicarli poiché l'intera scuola è stata spazzata via da una famiglia nobiliare ansiosa di mostrarsi solerte ed efficace di fronte all'inquisizione al punto da imporre il proprio giudizio a quello del suo stesso tribunale.
Questo atto efferato ha di fatto provocato una reazione da parte di quegli uomini, emotiva quanto la persecuzione subita e satura del medesimo rancore. Per mezzo di un potente incantesimo lanciato dal loro maestro, gli spiriti di quegli uomini hanno potuto scegliere di restare sul piano materiale legando la loro essenza a quella di un certo numero di artefatti dall'aspetto di comuni carte da gioco. Da quel momento in poi la loro storia è fonte d'ispirazione e stimolo per la ricerca per un ristretto numero di individui, venuti a contatto con queste carte nel corso dei decenni e decise a continuare tale ricerca: uomini che in origine condividevano il medesimo fine ma che nel corso dei decenni hanno incominciato a dividersi in misura sempre maggiore, in parte inginocchiandosi di fronte alla Luce di Pyros, in parte rifuggendola per timore, rabbia o vigliaccheria.

"Se sei uno stregone, perché sei ancora in gabbia?" gli aveva chiesto a quel punto Malaki.

Ma a quanto pare, Netjerikhet Zauemia Ruinethot non era affatto un praticante di magia. La sua stirpe ha un legame di sangue con uno dei discepoli di tale scuola, e che ha deciso di portare avanti questa battaglia nonostante i suoi membri non possiedano più da decenni alcuna capacità magica: e fu proprio suo padre, stando alle sue parole, ad averlo chiamato con lo stesso nome che fu del suo antenato, per prepararlo a quella che secondo lui sarebbe stata "l'ultima battaglia". L'ultima, perché determinati fatti occorsi durante la guerra tra Beid e Keib intrapresa nel 506 avevano avuto l'effetto di accelerare in un modo o nell'altro l'epilogo della vicenda.

Quelle parole non mi aiutavano affatto: non erano antiche ricerche magiche o dubbie interpretazioni di avvenimenti remoti ad interessarmi in quel momento quanto informazioni su Rosalie: null'altro mi importava, neppure i sogni che mi tormentavano da quando avevo preso in mano quella carta che sembrava così innocua. "E' tutto collegato", fu la risposta alle mie richieste. Stando alle sue parole, tanto io quanto Rosalie possediamo le caratteristiche per prendere parte a questa battaglia. E lo stesso vale per altre persone, molte delle quali lui stesso afferma di non conoscere e che con tutta probabilità io per prima conosco meglio di lui.

"Ma in ogni caso ne conosci alcune", gli dissi a quel punto. "Di chi stai parlando?".

"Se te lo dicessi, Joan" mi rispose, "potresti voler correre da loro. E credimi, sarebbe l'ultima cosa da fare, specialmente con me dietro queste sbarre".

"E cosa dovrei fare, allora?"

"Devi essere prudente: evitare di correre rischi, di recarti in posti aperti o vulnerabili. E avvisare i vostri comandanti di un possibile attacco imminente da parte della baronia di Keib. Se avete degli esploratori, mandateli sulle colline a est: confermeranno quello che vi sto dicendo.".

Quella notizia mi fece gelare il sangue: senza bisogno di esploratori, le informazioni che avevo erano tristemente compatibili con quella rivelazione. Tuttavia, questa coincidenza non provava nulla, non da sola.

"Non ho modo di verificare una sola parola di ciò che hai detto", replicai di rimando. "Speri forse che quanto mi hai rivelato sarà sufficiente per farti uscire?"

"C'e' qualcosa che puoi verificare senza muoverti dal tuo palazzo, Joan: quanto al resto", aggiunse, rivolgendosi questa volta a Malaki: "di quanti uomini si compone la sua scorta?"

"Dipende", intervenne Malaki. "Per il momento uno, a cui si spaccheranno le nocche contro la tua faccia la prossima volta che la chiamerai con un nome diverso dal suo".

"Posso organizzare una spedizione", dissi: "di quanti uomini avrò bisogno?"

"Piu sono meglio è: l'importante è che sir Thomas Keen non sia tra questi".

Quell'affermazione mi sorprese: "Perché non dovrei? E' l'uomo più fidato agli ordini di mio padre, oltre che una delle migliori lame di Beid!"

"Questo", disse l'uomo dietro le sbarre, "è esattamente il motivo per cui non è salutare averlo vicino".

(continua)


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Scritto il 02/04/2007 · 32 di 91 (mostra altri)
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